Luigi CalabresiIl 17 maggio 1972 cadeva ucciso a Milano da due colpi di pistola alla schiena e alla nuca il Commissario Luigi Calabresi, al culmine di una campagna di linciaggio attuata dalla stampa di sinistra, da buona parte di quella cosiddetta “indipendente” e da vari intellettuali e scrittori che allora (come oggi) imperversavano. A quarant’anni di distanza da quel vile assassinio, per capire che pasta di uomo e di cattolico fosse questo giovane (era nato nel 1937), proponiamo la lettura di un suo intervento del novembre 1966 ad una tavola rotonda indetta dal giornale Epoca.

 

Ricordo del Commissario Luigi Calabresi
Ancora qualche settimana e sarò Commissario di Pubblica Sicurezza. Lo dico perché sappiate in quale mondo sto per entrare con queste mie idee. Ma è una strada che ho scelto per vocazione.

Perché mi piace, perché sono convinto, perché costituisce una prova difficile. Avrei molti altri modi di guadagnarmi uno stipendio, ma sono affascinato dall’esperienza che può fare in polizia uno come me, che vuole vivere una vita profondamente, integralmente cristiana. Io sono giovane, ma riandando indietro con la memoria, per aver letto o sentito dire, mi pare che un tempo il metro con cui si valutavano gli uomini era diverso. Si valutavano per ciò che erano, per ciò che rappresentavano, per la posizione e la stima di cui godevano, per il gradino che occupavano nella scala sociale, e così via. Oggi invece quello che conta è il successo, questa medaglia di basso conio, che su una faccia porta stampato il denaro e dall’altra il sesso.

Se volessi intascare e magari spendere medaglie come questa non andrei in polizia, dove si resta poveri. Non andrei coltivando ideali buffi di onestà e di purezza. Purtroppo sono fatto in un certo modo, appartengo ad un gruppo neanche tanto scarso di giovani che vuole andare controcorrente. Noi sentiamo forse più degli altri lo sfasamento, lo squilibrio, il turbamento perché in ogni istante della giornata vediamo noi e vediamo gli altri, mettiamo noi stessi a confronto con gli altri; apparteniamo a due mondi che si scontrano, e perciò ci sentiamo in imbarazzo noi e si sentono in imbarazzo gli altri; in questo mondo neopagano il cristiano continua a dare scandalo, perché il fine che persegue, lo scopo che dà alla sua vita non coincide con quello dei più. Ecco il turbamento di cui parlavo: sentiamo di vivere, tutto sommato, in un mondo non nostro, che tende ad escluderci, a sopprimerci.

Non c’è presunzione in quello che dico. Infatti noi non siamo una categoria di eletti: ci vuol altro! Solo Dio sa chi sono i veri eletti. Però il mondo, così com’è, lo sentiamo ostile: i valori in cui crediamo non riflettono i valori che governano la vita degli altri.

Ricordino di Luigi CalbresiSentiamo però di avere un gran vantaggio. Se il non credente fallisce e non realizza gli ideali suoi, cade nello sconforto più completo, nella disillusione più amara. Il giovane cattolico, veramente cattolico, avrà le sue crisi passeggere, che però si risolveranno, perché c’è un aiuto di ordine superiore che si innesta nella sua realtà e nella sua umanità. Dico di più: so bene che il laico ed il pagano possono avere una rettitudine di fondo, una morale severa che addita loro degli obbiettivi non edonistici; però, se gli scopi vengono riposti in cose puramente terrene, fossero le più nobili e le più belle, poi, quando i tempi e la società non consentono di realizzarle, subentra lo sbandamento morale, la delusione. Io, per quanto posso, cerco di mettere i giovani in guardia su questo punto. E non mi riferisco alle minoranze colte (... ). No, mi riferisco a tutti gli altri giovani di cui si può parlare e che costituiscono la maggioranza amorfa…

Nella mia professione chissà quanti ne avvicinerò e saranno probabilmente i portatori delle crisi più laceranti e più gravi; ciò dipende dal fatto che non si pongono problemi quando è il momento, seguono la filosofia del nonpensiero e questo è un vero dramma perché non si sa mai da che lato affrontarli, come prenderli. Vivono alla giornata, inseguono il divertimento, inteso però nel senso latino di divertere, uscire cioè dalla realtà. La realtà li terrorizza, perché li mette di fronte a delle responsabilità. Quindi cercano di stordirsi.

Ho pratica di questi miei fratelli. Vedo la loro infelicità soprattutto in quel passaggio obbligato che è il rapporto fra i sessi. La sfera psichica che entra per prima in funzione non è quella dell’intelligenza (cioè capirsi, conoscersi) ma quella dell’affettività, che sta un pochino più in basso: vale a dire io piaccio a lei e lei piace a me, non ci poniamo molti problemi, stiamo insieme e basta, facciamo un po’ di strada e poi si vedrà. Poi si vedrà? Non intavolano un discorso perché non gli fa comodo intavolarlo; il ragazzo e la ragazza tipo, oggi, hanno paura di discutere, Ma quando il momento arriva, quando i problemi inevitabilmente sorgono, è troppo tardi, non si sono mai riconosciuti, non si sono mai intesi. Hanno magari addirittura evitato di rimanere soli, sono sempre usciti con altre coppie in comitiva, sono fuggiti davanti a loro stessi. Hanno avuto l’amore fisico, ma la fusione delle anime non sanno neppure che cosa sia. È questo che porta ai drammi che scoppiano nei matrimoni non riusciti; il senso della vita cristianamente vissuta si va perdendo, e nella società si aprono dei guasti sempre maggiori.

Per quanto mi riguarda, non esito a dirlo, ad un certo tipo di rapporto sessuale preferisco la castità; ho imparato faticosamente a preferirla, valutando nella mia coscienza il danno che arrecano le esperienze negative; darò a mia moglie (io non so chi è, come si chiama, dove vive, ma so che in qualche posto vive) un amore cristiano; e avremo subito figli, e saranno molti, e li cresceremo.

Se avete la curiosità di sapere in quale considerazione viene preso uno che si aggira per il mondo d’oggi, parlando in questa maniera, vi racconto che cos’è che più spesso mi accade. Naturalmente io frequento con assiduità le ragazze, mi piacciono molto. Una delle frasi che mi viene usualmente detta è questa: «Luigi, ma tu sei il primo che mi fa certi discorsi». E io puntualmente ci resto male, addirittura scandalizzato, e replico: «Possibile che io sia davvero il primo che ti fa certi discorsi? Vuol dire che altri non te li hanno fatti non perché non li sapessero, ma perché sono dei discorsi scomodi, presuppongono una coerenza di fondo, non si può prima predicare la purezza e l’intelligenza delle anime, e poi comportarsi diversamente; guarda che io non sto scherzando. In quel che dico ci credo». Ma non c’è niente da fare, restano un po’ sbalordite, si chiudono. Però non ho difficoltà a far parte di una compagnia, anzi direi che sono sufficientemente ricercato e bene accetto, anche perché le mie opinioni le dico con una certa umiltà senza pretendere d’imporle; dove si può trovare confidenza e tolleranza reciproca, bene; altrove si sente quell’imbarazzo di cui parlavo all’inizio.

Castità significa rimanere fedeli al proprio stato: sono credente, sono cattolico praticante, sono scapolo, dunque mi comporto in un certo modo; domani sarò casto nel matrimonio, mi comporterò sempre in un certo modo. È facile o difficile? Dipende. Se si è risolto il problema religioso, è più facile. Ben difficilmente potrei convincere un adultero a sciogliere il suo vincolo extra matrimoniale con argomenti mondani: ma se lo aiuto a trovare in sé la soluzione del problema religioso, di conseguenza lui probabilmente troverà la forza di cessare l’adulterio. Così è per la castità del cristiano, ben diversa da quella del nazista, che non perseguiva fini di ordine superiore come l’amore verso Dio e verso gli altri, non era la sublimazione dei sentimenti, era narcisismo, egoismo, sterile dimostrazione di dominio del cervello sul corpo.

Un medico mi diceva: si impara ad essere vecchi quando si è giovani. Io aggiungerei che si impara ad essere dei buoni coniugi quando non si è ancora sposati. È un problema che non si può affrontare e risolvere solo quando si presenta; presuppone uno sforzo, un allenamento, una preparazione che non si improvvisa.

Tutto questo, lo ripeto, l’ho imparato attraverso una serie di esperienze negative, cui poi è seguita una presa autonoma di coscienza; ma la forza d’imboccare la strada che ritengo giusta me l’ha data la fede. Come la più parte dei ragazzi che ho conosciuto non ho avuto alcuno aiuto da parte della famiglia a risolvere i problemi delicati e mi rendo ben conto che impostando bene certi discorsi nell’adolescenza, si eviterebbero poi tanti errori. Mio padre non se ne interessava, mia madre considerava il sesso come qualcosa di peccaminoso, di vergognoso. Però da bambino mi portò la mano destra alla fronte, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; e se ci troviamo qui stasera a parlare di queste cose ciò dimostra che non abbiamo forse avuto una educazione sessuale, ma sicuramente abbiamo avuto quella religiosa, che è alla base di tutto, che aiuta in tutto.

Gli ignoranti (dico, anche i cattolici ignoranti) credono di non dover discutere il problema religioso proprio perché ignorano in che cosa consiste; ho visto in certi ambienti cattolici, sbarrare gli occhi e tapparsi le orecchie davanti a chi diceva che la mancanza del divorzio significa anche l’impedimento dell’esercizio di un diritto umano e civile; ora non vorrei essere frainteso, perché sono assolutamente contrario al divorzio, però il problema c’è; sbarrare gli occhi e tapparsi le orecchie non serve a nulla; è un indice di pigrizia mentale, di mancanza di sincerità. In ultima analisi, il problema però è quello di far ritrovare il significato profondo dell’amore. Si dovrebbe far capire questo, qual è il vero amore reciproco che dovrebbe sfociare in quello con la A maiuscola, amore indistruttibile, amore incorruttibile; qualcosa come una fiamma che va alimentata giornalmente, qualcosa che no dovrebbe mai finire.

Dicevo della sincerità: C’è chi dice: tra i giovani la sincerità è in aumento e prende il posto delle antiche ipocrisie. Io non so, lo spero, può darsi; ma guardando intorno ciò che accade direi di no. Prendete i capelloni. Il capellone è un ragazzo che non sa come distinguersi, e si distingue soltanto così, con le chiome e il vestito stravagante, perché non sa come altro fare e allora si fa vincere dalla moda, che è il conformismo dell’anticonformismo. Confrontiamolo, che so, con il clochard parigino. In fondo si tratta nell’uno e nell’altro caso di una scelta. Però quella del barbone, del clochard, è talvolta una scelta meditata e ponderata, un rifiuto d’integrarsi che arriva al termine di un processo di maturazione. La seconda, quella del capellone diciottenne o ventenne; che viene magari dalla miseria delle borgate, è una scelta non autonoma e non responsabile. È un fare così soltanto perché lo fanno gli altri, è un seguire la corrente: quindi, tra i due, è il clochard il più sincero. È lui, semmai, che merita rispetto. Il capellone è soltanto il sintomo di un disagio collettivo, di una protesta confusa. Da poliziotto dovrò naturalmente servire lo Stato, far rispettare le leggi, difendere la società; però non è che questa società dove tutto è programmato, pianificato mi piaccia. Perché ad esempio viene meno l’impegno individuale, e quindi la personalità ne esce diminuita. La personalità è rapportata all’impegno che uno si assume nella vita, Non assumendosi l’impegno, logicamente viene meno un adeguato sviluppo della personalità.

Fra i popoli nordici, che vengono additati a modello di civiltà e di democrazia, la situazione sociale dell’individuo è disastrosa, come dimostrano le statistiche dei suicidi, e quelle belle case bianche sterilizzate dove vengono chiusi i vecchi. Non ci sono più affetti, il nucleo familiare è disgregato, è lo Stato che pensa a tutto, all’assistenza, ai disoccupati, ai malati, ai figli delle ragazze madri. Forse pensa troppo. E così viene meno l’impegno individuale, e la gente fa fallimento, perché poi non sa risolvere da sola il problema imprevisto.

Ma anche da noi, quanti ragazzi hanno modo di «sentire» davvero la famiglia? Questo sentimento si dissolve. E la colpa è qualche volta dei genitori, che vogliono sembrare giovani e moderni, ma certo è che fanno a gara con i figli, nell’uscire di casa, magari anche a Natale; e sono ridicoli, oltretutto. Il genitore deve fare il padre o la madre; quando vuole fare troppo l’amico o il fratello maggiore, sbaglia. Il figlio vuole avere un padre, cioè ben più che un amico, vuole avere una guida che sappia pronunciare anche i suoi «no», quando sono motivati.

Per quanto mi riguarda prenderò esempio dalla natura. Osserviamo che cosa accade sull’orlo di un nido quando l’uccellino sta per spiccare il primo volo. Il genitore sa che il piccolo è ormai in grado di volare. Ha fiducia in lui e lo incoraggia. L’uccellino a sua volta ha fiducia nel genitore e segue il suo invito a prendere coscienza dei propri mezzi. Nella famiglia dell’uomo dovrebbe accadere la stessa cosa: amore, fiducia. E i genitori dovrebbero prendere coscienza della tremenda responsabilità che si sono assunti procreando, cioè collaborando con Dio nella creazione, e tener presente questo in ogni istante della vita. Non è vero che si educa e ci si educa nello stesso momento, come sostiene una certa pedagogia che io rifiuto. L’uccello sa già volare quando insegna ai suoi piccoli come si dispiegano le ali. Così voglio essere io con i miei figli, se la fortuna mi aiuterà.

(Tratto da Giuseppe Veltri, Commemorazione del Commissario Luigi Calabresi, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, 2002).

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