Sacro Monte di Varallo, I farisei al processo di GesùLo zelo amaro
Vangelo della III domenica di Quaresima
(Lc 11, 14 ss)

Davanti a Gesù che scaccia i demoni e libera un poveretto posseduto, i farisei insinuano malignamente: «Scaccia i demoni in nome di Beelzebub!». Ci troviamo di fronte a quello che san Benedetto definisce «zelo amaro». Amaro perché falso; infatti, sotto le apparenze di bene è in realtà cattivo.

 

È uno zelo che ha la sua fonte non nell’amore di Dio ma nell’orgoglio, cioè nell’amore di sé.

Similmente, in altre occasioni, gli stessi scribi e farisei interrogavano Gesù per tendergli dei trabocchetti: il loro scopo era di fargli dire qualche parola compromettente, il tutto sotto il manto dello zelo. Fingono di cercare la verità («È lecito o no pagare il tributo a Cesare?»; o ancora: «La Legge dice di lapidare [la donna sorpresa in adulterio]: tu che cosa dici?», in realtà gli tendono una trappola. Fingono lo zelo per la Legge di Dio («Non può essere da Dio qualcuno che guarisce nel giorno di sabato»); o ancora, si scandalizzano perché Gesù mangia con i peccatori.

Questo è lo zelo amaro, parente stretto dell’ipocrisia.

Da qui quell’atteggiamento mentale di chi è sempre teso, sempre inquieto: agli occhi di chi è animato da questo falso zelo nulla è abbastanza perfetto, non vi è nulla che vada bene… Invece di rallegrarsi del bene che si vede, si va a cercare ciò che non va per criticarlo.

San Benedetto dice dell’Abate (ma lo si può applicare ad ognuno di noi): «Che non sia agitato, non sia esagerato ed ostinato, non sia geloso e troppo sospettoso perché non avrebbe mai pace». E qualche versetto più su: «Anche nel correggere agisca con prudenza e senza alcuna esagerazione perché non avvenga che, volendo raschiare troppo la ruggine si rompa il vaso». E poi quella frase scultorea, che vale tutto un trattato: «[L’abate] odi i vizi, ami i fratelli – Oderit vitia, diligat fratres» (Regola, cap. 64). Ancora il santo Patriarca dice ai suoi monaci: «Zelum non habere, invidiam non exercere – Non avere gelosia, non agire per invidia» (Regola, cap. 4).

Quanta saggezza in queste poche righe scritte del Padre del monachesimo!

 

Lo zelo secondo Dio

«Come vi è uno zelo amaro e cattivo che separa da Dio e conduce all’inferno, così vi è uno zelo buono, che separa dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna» (Regola, cap 72). È da questo santo zelo che dobbiamo lasciarci animare!

Quali sono le sue note caratteristiche? È di capitale importanza il conoscerle, se vogliamo praticare quotidianamente questo zelo buono.

Il rispetto del prossimo: «[I fratelli] si prevengano l’un l’altro nel rendersi onore» (regola, cap. 72). Si tratta di vedere nel nostro prossimo (chiunque esso sia) un’anima creata ad immagine e somiglianza di Dio. È Gesù stesso che ce ne fa un obbligo, l’oggetto di un «comandamento nuovo»: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 13, 34).

Non credo che si rifletta a sufficienza su queste parole.

La pazienza. Anche quando il nostro prossimo non è perfetto, lo dobbiamo ugualmente amare. Ecco la seconda caratteristica dello zelo: «[I fratelli] sopportino con grande pazienza le loro [dei fratelli] infermità fisiche e morali» (Regola, cap. 72). Quanto realismo nelle parole di san Benedetto! È facile amare il prossimo “idealizzato”, senza difetti: è facile perché tale prossimo… non esiste, è una pura astrazione! Stupirsi delle miserie altrui, o peggio scandalizzarsene, significa non conoscere le persone, non conoscere la vita.

Solo la carità soprannaturale può gettare un velo pietoso sulle miserie degli altri e farci amare il prossimo così com’è.

Solo la carità sa pazientare, sa non spegnere «il lucignolo vacillante», sa incoraggiare il bene che vede, anche se poco.

La prontezza nel rendere servizio. «[I fratelli] facciano a gara nell’ubbidirsi a vicenda» (Regola, cap. 72). Ecco la terza nota dello zelo buono: l’aiuto reciproco. È quanto scrive san Paolo ai Filippesi: «Ciascuno guardi non ai propri interessi, ma a quelli degli altri» (Fil 2, 4). Dio guarda con un occhio di riguardo l’anima che sa dimenticare se stessa per darsi al prossimo: pensare agli altri piuttosto che ai propri interessi personali è segno di vera carità soprannaturale.

Ecco lo zelo che deve animarci.

 

Lo zelo che porta a Dio

«Solo il cuore può toccare i cuori. Noi agiamo sulle anime nella misura in cui le amiamo […]. Che cos’è lo zelo? È il movimento stesso dell’amore, ma intensificato al punto tale da rendere l’anima capace di trascinare gli altri nella propria scia. Questo deve essere l’ardore della nostra carità: volere vivamente il regno di Dio nelle anime e nella società; allora troveremo le parole che confortano, combatteremo il peccato, accetteremo le pene, la fatica, il dono e il sacrificio di noi stessi» (Colomba Marmion, Le Christ idéal du Prêtre, pag. 173).

Solo così sapremo evitare come la peste tutto ciò che divide, o che potrebbe portare alla divisione: il dubbio, l’insinuazione, il sospetto temerario nei confronti del prossimo, sono altrettanti elementi di divisione.

In tutto sappiamo cercare «l’unità nella carità». Tutto ciò che divide (che si tratti della famiglia o di una comunità), tutto ciò che dissolve evitiamolo come la peste, come qualcosa di diametralmente opposto allo zelo buono. È diabolico in senso stretto (diavolo deriva dal greco diabállein “disunire, mettere male, calunniare”).

Non lasciamoci “dividere”. La prima divisione la si opera in noi stessi, quando ci lasciamo animare da questo zelo amaro. Ed i primi ad averne danno siamo proprio noi: c’è di che temere per la nostra salvezza eterna: «Un regno [un’anima] diviso in se stesso va in rovina». E ancora: «Chi non è con Me  [chi non è animato dalla Carità] è contro di Me e chi non raccoglie con Me disperde».

Che cosa ci dice Gesù? «Beati qui audiunt verbum Dei et custodiunt illud – Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la custodiscono». “Ascoltare” e soprattutto “custodire”: «Udire la parola è come concepire Gesù; osservarla è come darlo alla luce. Maria è senza dubbio beata per aver dato la vita a Gesù, ma è più beata ancora per aver fedelmente ascoltato e praticato la parola di Dio» (Marco Sales, Il Nuovo testamento commentato, nota a Lc 11, 28).

don Luigi Moncalero

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