Intervista pubblicata sul bollettino del Distretto svizzero della Fraternità San Pio X “Le Rocher c’est le Christ” n°88 (aprile-maggio 2014)

«DOBBIAMO PREOCCUPARCI DELLA CURA DELLE ANIME»

In occasione della sua visita a Oensigen, il 20 gennaio 2014, abbiamo potuto intrattenerci con monsignor Fellay su questioni d’attualità riguardanti la Chiesa e la Fraternità San Pio X.

Le Rocher: Monsignore, nel combattimento a favore della salute delle anime che la nostra Fraternità conduce da più di quarant’anni, quale è la nostra relazione con questa Chiesa che sembra non prendere più sul serio tale combattimento, che cosa si può fare con i progressisti?

Mons. Fellay: A dire il vero, non si può fare poi molto. Attualmente, qua o là, può succedere che a volte si ottenga una chiesa per celebrare la S. Messa, ma niente più. Con i veri progressisti non potremo mai essere d’accordo, ma non ci sono solo modernisti e se si può far avanzare qualcosa, si deve fare questo bene. Bisogna provare, ma con molta prudenza. Nostro Signore non ha inviato i suoi apostoli in un bel giardino, ma nel mondo.

Le Rocher: Dunque è la preoccupazione della cura di tutte le anime, non solo di quelle che si rivolgono alla Fraternità, che vi spinge ad agire?

Mons. Fellay: Sì, dobbiamo preoccuparci della cura delle anime e infatti questo è lo sprone nei nostri rapporti con Roma: la nostra sola preoccupazione è di ricondurre le anime alla Tradizione e per questo ho parlato del «ritorno della Tradizione nella Chiesa».

Le Rocher: Questa espressione ha creato dei fraintendimenti.

Mons. Fellay: Ho parlato secondo il senso comune. Alcuni dicono che la Chiesa non può essere separata dalla sua «Tradizione» che è uno dei fondamenti, insieme alla Sacra Scrittura, della Rivelazione, perciò dire che la Chiesa è separata dalla Tradizione è un’eresia. Ma non ho detto questo. Altri dicono che la «Tradizione» siamo noi e perciò domandare preghiere per il ritorno della Tradizione nella Chiesa vuol dire domandare preghiere perché le opere della tradizione ritornino nella Chiesa. Non ho detto neppure questo. Eppure, a causa di un’interpretazione sbagliata, alcuni sacerdoti ci hanno lasciato! 

Le Rocher: Hanno compreso la sua espressione a livello teologico, in maniera univoca?

Mons. Fellay: Ad un superiore di distretto che mi diceva che questa formula aveva creato dei problemi, ho risposto che se si continua così, in poco tempo dichiareremo eretica la frase «il sole tramonta», visto che, secondo i principi della fisica e dell’astronomia, non è vero che il sole tramonta e dunque dire «il sole tramonta», è un errore, è falso. Bisognerebbe forse smettere di dire che il sole tramonta? Questa espressione è tipica del linguaggio comune, restiamo coi piedi per terra, siamo realisti! Se si vuole parlare a livello teologico, in senso stretto, è vero che non ha senso domandare il ritorno della Tradizione nella Chiesa, lo ammetto. Ma non era questo che volevo dire. Monsignor Lefebvre nell’omelia delle consacrazioni episcopali del 1988 ha dichiarato: «quando la Tradizione avrà ritrovato tutti i suoi diritti a Roma»; è la stessa cosa che dire «è tornata la primavera», si tratta in entrambi i casi di espressioni della lingua comune.

Le Rocher: Tutto considerato, la vita è colma di analogie, non è univoca, cioè si utilizzano i termini in modi diversi.

Mons. Fellay: L’analogia è «in se, diversa, secundum quid unum»: quando si parla d’analogia, si parla di due cose in sé differenti, che però si assomigliano in un punto. È evidente che la parola «tradizione» ha più di un significato: si può dire «siamo la tradizione», certo; ma si parla della Tradizione anche in modo molto più ampio quando si parla della «Tradizione della Chiesa»; allo stesso modo si parla della «Tradizione» come della parte non scritta della Rivelazione; è un termine analogico: se si perde il senso dell’analogia, ci si perde nella crisi odierna.

Le Rocher: Dunque stiamo attenti a non fare nostro questo spirito.

 Mons. Fellay: Pure Benedetto XVI fece questo con la sua «ermeneutica della continuità». Fino a prima di lui era chiaro: c’era il passato, la tradizione, e poi il concilio Vaticano II, per tutti era avvenuta una rottura e nessuno la negava. Benedetto XVI invece ha dichiarato che la Chiesa non può prescindere dal suo passato, deve conservarlo e che il presente è «incorporato» al passato, perciò anche il concilio Vaticano II appartiene alla Tradizione; in questo modo si è nel completo equivoco: non ci può essere «ermeneutica della continuità», dal momento che il Vaticano II dice il contrario di ciò che era stato affermato fino allora. Ma Benedetto XVI ci teneva perché voleva salvare, recuperare il Concilio, dicendo una verità, che è la causa della confusione: “la Chiesa non può rompere con il suo passato”.

Le Rocher: Come spiega allora questa rottura?

Mons. Fellay: Per spiegarla ha introdotto, almeno due volte nel suo pontificato, all’inizio e alla fine, l’idea di un falso concilio, il «concilio dei media» o para-concilio che si sarebbe sostituito al vero concilio nella recezione che ne hanno avuto i fedeli; è estremamente sottile: riconosce che ci sono degli errori, delle cose che non vanno, ma li attribuisce al falso concilio. Sfortunatamente è solo un mezzo artificioso per eliminare gli errori del concilio, per salvarlo.

Le Rocher: Si ha l’impressione che questo mezzo artificioso sia stato spazzato via con papa Francesco.

Mons. Fellay: Si potrebbe dire che papa Francesco è il primo difensore di tutti gli errori del Vaticano II. Per esempio la sua definizione del concilio: secondo lui si tratta di una rilettura del Vangelo alla luce della civilizzazione, della cultura contemporanea. La luce per comprendere il Vangelo al giorno d’oggi è la civilizzazione moderna, ma ciò è il contrario alla fede che dice che la luce con la quale bisogna leggere il Vangelo è Dio stesso. Questa è teologia. Francesco ci dice che il frutto migliore del concilio, l’illustrazione migliore della sua efficacia, è la nuova messa. Siamo assolutamente d’accordo! Ma lui dice che è un bene, noi che è un male, e qui sta la differenza!

Le Rocher: Si sa dove si va veramente a finire con questo papa?

Mons. Fellay: Bisogna stare attenti quando si cerca di esprimere giudizi su di lui perché non rientra nelle nostre categorie, è fuori della norma, è un papa d’azione: questo è ciò che conta per lui e vuole avere la possibilità di agire liberamente. Perciò quando parla di dottrina si esprime in maniera ambigua, molto ambigua e non c’è più tutta questa coerenza tra la dottrina e l’azione. Nei suoi discorsi c’è un po’ di tutto. Ciò che conta, per lui, nell’azione, sono gli uomini: se prova simpatia verso qualcuno, tutto è permesso. Ha ricevuto i suoi amici rabbini d’Argentina, ha condiviso con loro un pasto «kasher» nella casa Santa Marta e la foto è stata messa sul sito del Congresso ebraico mondiale: l’atmosfera è simpatica, si direbbe una combriccola di amici. Poco importa che cosa pensi la gente, loro sono suoi amici.

Le Rocher: La sua elezione ha cambiato lo stato della Chiesa?

Mons. Fellay: Non ha cambiato nulla: continuano tutte le pratiche che abbiamo sempre denunciato. Solamente sono terminati gli inviti, i sostegni discreti verso coloro che volevano un po’ più di tradizione (cfr. i Francescani dell’Immacolata) e c’è molta più confusione. Fin qui papa Francesco non ha preso alcuna contro misura per migliorare la situazione disastrosa della Chiesa, si può constatare invece un arresto nel facilitare l’antica liturgia, lasciando lo stutus quo, sia che si tratti di religiosi, sia che si tratti di seminari.

Le Rocher: Ha compreso la vera situazione della Chiesa, la situazione delle anime?

Mons. Fellay: È moderno, ma ha ancora il suo catechismo d’infanzia e crede che la gioventù d’oggi conosca il suo catechismo, ma questo forse è, tutt’al più, il caso dell’Argentina! Applica a tutta la Chiesa ciò che, forse, può ancora andare bene in America Latina.

Le Rocher: Con questo papa si può aspettarsi un miglioramento?

Mons. Fellay: Conoscete la definizione di se stesso che ha rilasciato al gesuita che gli ha chiesto in un’intervista di descrivere chi è papa Francesco? «Sono un peccatore. Sì, credo che sia la risposta più profonda che io possa dare e sono anche un po’ subdolo (Mons. Fellay usa l’espressione francese «fourbe», espressione che traduce in maniera forse un po’ troppo forte l’aggettivo italiano «furbo» usato dal papa) e manipolatore». Sul piano dottrinale ci sarà meno chiarezza che nel passato perché certe frasi sono chiare, altre incredibilmente nebulose.

Le Rocher: I papa Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II saranno «canonizzati» il 27 aprile. C’è da meravigliarsi per una tale decisione? Cosa possiamo fare?

Mons. Fellay: Non c’è da stupirsi: se il fine che si vuole raggiungere è canonizzare il concilio, la via più semplice è canonizzare i papi che l’hanno fatto. Cosa possiamo fare? Direi che abbiamo già tentato tutto il possibile, dal punto di vista dell’incidenza che possiamo avere su Roma, che d’altra parte non ci ascolta né vuole intendere ragione. Non ci resta altro da fare se non pregare e ricordare gli studi che abbiamo già pubblicato: abbiamo inviato due importanti dossier per protestare prima contro la beatificazione di Giovanni XXIII e poi di Giovanni Paolo II. I dossier sono stati accolti ma chi è stato incaricato di farne un resoconto ha scartato i ragionamenti con un colpo di mano, dicendo che, in ogni caso, siamo contro il concilio... Non c’è stato alcun serio tentativo di considerare i ragionamenti che proponevamo. Un’incredibile leggerezza.

Le Rocher: Questi studi – e le pubblicazioni che ne sono seguite[2] – sono ancora attuali?

Mons. Fellay: Andiamo a riprendere tutti i nostri studi per dimostrare che tali canonizzazioni non sono serie, anche se c’è sempre il famoso problema dell’infallibilità implicato da una canonizzazione. Bisogna sapere che c’è un aspetto su cui si può ancora lavorare: mentre non c’è da discutere riguardo le questioni di fede e di infallibilità dei dogmi, al contrario c’è ancora uno spazio di discussione possibile riguardo la questione dell’infallibilità delle canonizzazioni, siccome esse non sono oggetto primario, ma piuttosto secondario, dell’infallibilità.

Le Rocher: I documenti che sono ancora negli archivi segreti non sono neppure stati esaminati?

Mons. Fellay: Si tratta di un’imprudenza totale: l’elemento materiale della canonizzazione è l’atto prudenziale della Chiesa, se non si seguono le regole elementari di prudenza e si eliminano certi documenti, c’è la reale possibilità di sbagliare. In ogni caso sembrerebbero aver mutato la nozione di santità. Tutto ciò ci rattrista, ma umanamente parlando non vediamo cosa si potrebbe fare per impedirlo. Sono arrivati persino a fare a meno dei miracoli.

Le Rocher: Ci sono persone che affermano che Mons. Fellay vuole l’accordo con Roma a tutti i costi.

Mons. Fellay: Ciò non ha senso! Io non ho mai cercato nulla ma ho creduto mio dovere esaminare la proposta romana nel 2011/2012. In questo momento quella sarebbe una follia. Dove vanno a cercare queste idee? Resto comunque convinto che bisogna cercare di fare tutto il bene che sia possibile fare per salvare il più gran numero di anime. Tutto ciò che si può fare di bene a Roma potrà in seguito ridiscendere su tutta la Chiesa e fare del bene a migliaia di anime. Bisogna provare. È normale, è evidente. Al momento è limitato, ma è sempre affidato nelle mani di Dio. Noi facciamo il possibile. C’è ancora a Roma chi dice che la Chiesa sarà restaurata con e per mezzo della Tradizione.

Le Rocher: C’è stato un tentativo ufficiale a Roma per riprendere i contatti con voi dopo l’elezione di papa Francesco?

Mons. Fellay: C’è stato un tentativo «non ufficiale» di Roma, ma niente di più e non ho sollecitato un’udienza come ho potuto fare dopo l’elezione di Benedetto XVI. Attualmente per me le cose sono molto semplici: si resta come si è. Certe persone sono arrivate alla conclusione, sulla base dei contatti del 2012, che io ponga come principio supremo la necessità del riconoscimento canonico: invece il nostro obbiettivo primario è la conservazione della fede e della nostra identità cattolica tradizionale.

Le Rocher: Ci sono tuttavia delle voci sempre più discordanti nella Chiesa?

Mons. Fellay: Certo, ma siccome non abbiamo un papa che metta ordine, andiamo verso una situazione ancora più confusa. Il grande pericolo è questa situazione provochi delle impazienze presso di noi: che ci sia chi ne ha abbastanza e concluda che il papa attuale non è più papa. C’è già chi lo dice: sacerdoti che ci hanno lasciato hanno dichiarato, al momento dell’elezione di papa Francesco, di non riconoscere questa elezione.

Le Rocher: Si sta verificando un miscuglio di impazienza e inquietudine?

Mons. Fellay: Quando c’è la diffidenza si tende a prendere tutto con una cattiva disposizione: si esagera, si mente e a forza di mentire la gente finisce per crederci. In più c’è una vera campagna d’intossicazione

Le Rocher: Preferite, senza dubbio, che ci si rivolga a voi.

Mons. Fellay: Non ho mai rimproverato nessuno per avermi scritto e per avermi chiesto precisazioni e spiegazioni, ma accusare e discutere in pubblico è grave, si rende il pubblico giudice di una causa e questo è un processo rivoluzionario: si definiscono anti liberali e poi utilizzano i principi della rivoluzione.

Le Rocher: Quale uso si può fare dei testi di mons. Lefebvre? Quale autorità hanno?

Mons. Fellay: Mons. Lefebvre è il nostro fondatore e nella nostra fraternità è lui che ha dato i principi, lo spirito. Ha un’importanza capitale, ha avuto la grazia del fondatore, quindi ha un’autorità eminente per la nostra fraternità. D’altra parte si può ben dire che oggi la nostra fraternità un po’ nelle stesse circostanze che al momento della sua fondazione, gli eventi sono gli stessi, cioè la crisi nella Chiesa, la messa in discussione della fede e della morale, della disciplina. Certo, ci sono delle varianti: c’è il nuovo diritto canonico, c’è stato il convegno interreligioso di Assisi, ma fondamentalmente è la stessa crisi che ferisce a morte la Chiesa, che uccide le anime, asfissia le comunità religiose, le diocesi. Il sacerdozio è tuttora in pericolo. D’altra parte Roma stessa ci considera in maniera particolare proprio a causa del nostro fondatore, mentre ignora totalmente i movimenti sedevacantisti.

Le Rocher: Non potremo dire che, dal momento che mons. Lefebvre ha detto qualcosa in un’occasione, ha fatto un’affermazione che vale per sempre?

Mons. Fellay: Si può vedere come ha agito in una situazione simile, ma non si può fare un «copia-incolla». Nel 1976, in occasione dell’«estate calda», mons. Lefebvre ha usato espressioni molto dure, che dopo non ha più utilizzato: ha parlato di «messa bastarda», di sacerdoti «bastardi». In seguito non ha più usato queste espressioni, forse perché poi la messa è diventata meno «bastarda»? No, certamente, ma ha usato queste espressioni in occasione di un’«estate calda» in tutti i sensi.

Le Rocher: Ci si può domandare: «Cosa farebbe mons. Lefebvre oggi?»

Mons. Fellay: Quando si applica all’oggi qualcosa che viene dal passato non si deve dimenticare che le circostanze attuali non sono necessariamente e assolutamente identiche a quelle conosciute dal nostro fondatore. Ci si può ispirare al suo spirito ma non si possono fare esattamente le stesse cose. Di fatto si può far dire a mons. Lefebvre tutto ciò che si vuole, si può trovare nelle sue omelie ciò che potrebbe apparire una contraddizione: nella sua famosa omelia per il suo giubileo episcopale nel 1987 (40 anni di episcopato), racconta nella prima parte il suo incontro con il cardinal Ratzinger al quale disse: «Anche se ci concedete dei vescovi, non possiamo lavorare con voi»; ma nel seguito dell’omelia, spiega ai fedeli che a Roma ha avuto luogo una cosa straordinaria, che gli hanno fatto un’interessante proposta e domanda di pregare perché giunga a buon fine.

Le Rocher: Dunque si può far dire a mons. Lefebvre più o meno quel che si vuole?

Mons. Fellay: Si può fargli dire quasi quello che sivuole perché lui si è trovato in situazioni molto differenti dove ha dovuto ogni volta prendere posizione. L’unica soluzione per uscirne è porre le affermazioni nel loro contesto: non ci si rende mai abbastanza conto dell’importanza del contesto. Assolutizzare tutto è una delle sventure odierne: ogni frase è assolutizzata, cioè estratta dal suo contesto ed eretta a principio assoluto. Ma questa non è la realtà. Ci sono generi differenti: un’omelia, una conferenza, un commento ad un testo, una spiegazione. Si finisce per perdere il senso delle sfumature e l’onestà intellettuale.

Parte dei problemi moderni nasce dal fatto che non si tiene conto se ciò che si dice rientra nel dogma o nell’opinione personale. Tutto è dogmatico, assolutizzato, mentre molte delle cose che si dicono rientrano nell’ordine dell’opinione, cioè dicendole bisogna accettare la possibilità che qualcuno pensi il contrario. Un esempio, la famosa questione della Chiesa conciliare: quale è la sua natura? Siamo sul piano dell’opinione e le opinioni possono essere differenti, anche all’interno della Fraternità San Pio X, non si può farne un dogma e condannarsi a vicenda quando si abbiano opinioni differenti. Lo stesso discorso vale per quella che si chiama «autorità magisteriale del concilio» che è una questione aperta, Roma dichiara che si tratta di magistero ordinario ma non domanda di accettarlo come tale in nome della fede. Mons. Lefebvre era dell’avviso che fosse piuttosto nell’ordine di una predicazione, quindi passibile di errore.

Le Rocher: Per concludere, quali consigli dona ai fedeli?

Mons. Fellay: In mezzo a tante preoccupazioni, il bene della Chiesa nella sua interezza deve restare a cuore di tutti i cattolici. Gli sviluppi della Fraternità che vediamo realizzarsi sotto i nostri occhi sono motivo di gioia, di ringraziamento nonché la prova concreta che la fedeltà alla fede e alla disciplina tradizionali produce sempre i frutti benedetti della Grazia. In un mondo di giorno in giorno più ostile all’osservanza dei comandamenti di Dio, dobbiamo preoccuparci di formare delle anime temprate che prendano a cuore la loro santificazione e la salvezza di tutte le anime.

Intervista a cura di don Claude Pellouchoud / Si ringrazia la Casa generalizia

 [1] «Non so quale possa essere la definizione più giusta… Io sono un peccatore. Questa è la definizione più giusta… E non è un modo di dire, un genere letterario. Sono un peccatore». (…) «Sì, posso forse dire che sono un po’ furbo, so muovermi, ma è vero che sono anche un po’ ingenuo.»

[2] Don Philippe Toulza, «Jean XXIII bienheureux?», in Fideliter, marzo-aprile 2008. The Remnant, «Exposé des réserves sur la prochaine béatification de Jean-Paul II», DICI n°233 (16 aprile 2011). Don Jean-Michel Gleize, «Doutes sur une canonisation», in Le Courrier de Rome, n°341, febbraio 2011, DICI n°283 (18 ottobre 2013); «Le dilemme que pose la canonisation de Jean-Paul II», in Le Courrier de Rome, n°372, DICI n°290 (14 febbraio 2014); don de la Rocque, «Jean-Paul II, doutes sur une béatification», Clovis, 2010. 

 

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