FotoProponiamo alla vostra lettura una bella conferenza pronunciata da Mons. Alfonso de Galarreta in occasione delle Giornate della Tradizione a Villepreux in Francia, il 13 ottobre scorso. Il vescovo comincia con il ricordare la necessità della battaglia per la fede, per poi riassumere gli ultimi avvenimenti, mostrando come la crisi interna che ha travagliato la Fraternità sia stata superata dall'ultimo Capitolo generale che ha posto delle condizioni inderogabili perché la Fraternità resti fedele alla linea tracciata dal suo fondatore nelle discussioni con le autorità romane, in modo da continuare a contribuire efficacemente ad un ritorno di Roma alla Tradizione.

L’utile lezione della prova passata

Cari confratelli, cari religiosi, carissimi fedeli, cari amici,

La mia intenzione è di parlarvi delle qualità della milizia spirituale, cristiana, cattolica, delle condizioni che deve rivestire la battaglia per la fede ed evidentemente di dirvi qualcosa sulla situazione della Fraternità nei confronti di Roma. Nel libro di Giobbe è detto: «Militia est vita hominis super terram et sicut dies mercenarii dies ejus» (Giobbe 7,1). La vita dell’uomo sulla terra è un tempo di lotta e i suoi giorni sono come quelli di un mercenario. È la Scrittura, è Giobbe che dà questa immagine molto interessante.

Se la vita di ogni uomo sulla terra è un combattimento, a maggior ragione la vita del cattolico, del cristiano battezzato, cresimato e dunque impegnato in questa battaglia per Cristo Re. E io direi che, se la vita di ogni cristiano è un combattimento, la vita del cristiano di oggi è per eccellenza una lotta, una battaglia, un tempo di milizia. In questa frase, noi troviamo enunciata la necessità del combattimento, esso è necessario, è la nostra condizione, e questo non è nuovo, è dappertutto e da sempre che ci si è dovuto battere. Vi è una battaglia nella vita, ma soprattutto una battaglia per conquistare l’eternità, il che implica molte cose.

È per questo che occorre uno spirito combattivo. Cosa si richiede ad un soldato? Certo, che sia capace di lottare, di battersi, che sia coraggioso, valente. Questo testo molto breve fa riferimento ad una Provvidenza, poiché sia un soldato sia un mercenario sono al servizio di un maestro, dunque noi combattiamo per Dio, noi combattiamo per Nostro Signore Gesù Cristo. Nostro Signore Gesù Cristo è il nostro Capo, è il nostro Maestro, ma è anche il Maestro della storia e la sua Provvidenza governa ogni circostanza particolare.

San Giovanni della Croce dice che tutto è Provvidenza, nel senso che tutto ciò che ci capita, ci è inviato in maniera del tutto cosciente e voluta dalla Provvidenza.

Una visione soprannaturale della battaglia per la fede

Un soldato, un mercenario, lottano e combattono per una vittoria, e se la vita di quaggiù è un combattimento, questo vuol dire che la vittoria non è su questa terra. Se tutta la nostra vita è un combattimento, questo vuol dire che la nostra vittoria è nell’eternità. Penso che dobbiamo conservare questa visione di fede soprannaturale del combattimento. Noi lottiamo in questa vita sulla terra per una corona eterna. Ma questo non è per demotivarvi, perché un cristiano, un cattolico sa che il combattimento si conduce in questa vita, che esso è molto reale: bisogna battersi. Ma sapendo che la vittoria definitiva si situa nell’eternità, noi, per così dire, non abbiamo veramente bisogno di avere una vittoria in questa vita, se è Dio che lo vuole, poiché la nostra vittoria, in ultima analisi, è il conquistare l’eternità, per noi e per i nostri.

Inoltre, questo passaggio di Giobbe ci mostra altri aspetti di questo combattimento, per esempio: la battaglia per la fede, il combattimento spirituale, soprannaturale, è doloroso – doloroso nel senso etimologico del termine – e presuppone delle sofferenze e delle prove, delle contraddizioni, e, in questa vita, perfino delle sconfitte. Santa Teresa di Gesù ha un testo molto bello in cui dice che ciò che è richiesto al cristiano non è di vincere, ma di lottare, o piuttosto dimostra che il fatto di combattere per la fede è già la vittoria del cristiano.

Un autore diceva: Dio infatti non ci chiede la vittoria, ma esige da noi di non essere vinti. È una riflessione molto interessante e voi vedete come questo può applicarsi benissimo a questa crisi della Chiesa. Dio non ci chiede di vincere, è Lui che dona la vittoria, se vuole, quando vuole e come vuole. Questo non Gli costa assolutamente niente. Ma ciò che ci chiede è di difendere il bene che abbiamo e di non essere vinti.

L’insegnamento del cardinale Pie

Vi è un testo del cardinale Pie che voglio leggervi; esso è pieno di fede, di insegnamento, ed è mirabilmente espresso: «Il saggio dell’Idumea ha detto: “La vita dell’uomo sulla terra è un combattimento” (Giobbe 7, 1), e questa verità non è meno applicabile alle società che agli individui. Composto da due sostanze essenzialmente distinte, ogni figlio di Adamo porta nel suo seno, come la sposa di Isacco, due uomini che si contraddicono e si combattono (Genesi 25, 22). Questi due uomini o, se volete, queste due nature, hanno delle tendenze e delle inclinazioni contrarie. Indotto dalla legge dei sensi, l’uomo terreno è in perpetua insurrezione contro l’uomo celeste, retto dalla legge dello spirito (Galati 5, 17): antagonismo profondo, che quaggiù potrebbe solo sfociare nella defezione vergognosa dello spirito, che si arrende alla carne e si abbandona alla sua discrezione.» (1)

Così, dunque, il solo modo per arrivare alla pace (apparente) in questo combattimento, cioè al pacifismo, è la vittoria della carne. Se noi non vogliamo una tale (falsa) pace, siamo obbligati a combattere fino alla morte, perché il trionfo è al di là di essa. È questo che ci vuole dire il cardinale Pie: «Diciamolo dunque, fratelli miei, la vita dell’uomo sulla terra, la vita della virtù, la vita del dovere, è la nobile coalizione, è la santa crociata di tutte le facoltà della nostra anima, sostenuta dal rinforzo della grazia, sua alleata, contro tutte le forze coalizzate della carne, del mondo e dell’Inferno: Militia est vita hominis super terram».

È una battaglia per noi, ma è anche una battaglia sociale, pubblica: «Ora, se si considerano questi stessi elementi rivali, queste stesse forze nemiche, non più nell’uomo singolo, ma in quell’insieme di uomini che si chiama società, allora la lotta assume proporzioni ben più grandi». E il vescovo di Poitiers cita la Scrittura, la Genesi: «E i due bambini che si scontrano e sono in conflitto nel tuo seno – dice il Signore a Rebecca – sono due nazioni; i tuoi due figli saranno due popoli, di cui uno sarà domato dall’altro e dovrà obbedirgli (Genesi 25, 23).

Così, fratelli miei, il genere umano si compone di due popoli: il popolo dello spirito e il popolo della materia; l’uno, nel quale sembra personificarsi l’anima con tutto quello che ha di nobile e di elevato, l’altro che rappresenta la carne con tutto quello che essa ha di grossolano e di terreno. La più grande disgrazia che possa colpire una nazione è la cessazione della lotta tra queste due potenze avverse. Questo armistizio lo si è visto nel paganesimo. Lo Spirito Santo, che ci ha tracciato il quadro di tutte le turpitudini sociali e domestiche derivanti da questa mostruosa capitolazione (Sapienza 14), completa il quadro con quest’ultimo tratto: in questo marasma mille volte più mortale della guerra, gli uomini che vivono senza pensarci, si ingannano fino a dare il nome di pace a tali mali così grandi e così numerosi». È esattamente la situazione attuale… non è forse così? La pace, la pace, la pace! «Insensibilità funesta – prosegue il cardinale Pie – che non è altro che quella della morte, pace lugubre che bisogna paragonare al lavoro silenzioso e tranquillo dei vermi che rosicchiano il cadavere nel suo sepolcro».

«Il genere umano languiva in questo stato di abbassamento e di prostrazione morale, quando il Figlio di Dio venne sulla terra, portando non la pace, ma la spada (Matteo 10, 34). Questa spada dello spirito, che Iddio creatore aveva messo nelle mani dell’uomo per combattere contro la carne e che l’uomo aveva ignominiosamente lasciato cadere dalle sue mani, Gesù Cristo, come qualcuno ha detto prima di me (2), l’ha raccolta dall’ignobile fanghiglia in cui dormiva da lungo tempo e poi, dopo averla ritemprata col Suo Sangue, dopo averla come provata sul Suo Corpo stesso, averla resa più tagliente e più penetrante che mai, l’ha consegnata al nuovo popolo che era venuto a costituire sulla terra. Ed allora è ricominciata in seno all’umanità, per non finire se non con la fine del mondo, l’antagonismo tra lo spirito e la carne: Non veni pacem mittere, sed gladium.»

E’ questa una lunga citazione del cardinale Pie, ma tutto è detto, e molto ben detto. La necessità di questo combattimento di cui parla Giobbe, trasmettendo la parola di Dio, non è un combattimento solo interiore, individuale, limitato nelle pareti domestiche, o a scuola, ma è un combattimento essenzialmente sociale, politico e religioso. Vi sono due spiriti, le due città; questo combattimento ineluttabile noi dobbiamo ingaggiarlo, dobbiamo continuarlo.

A mio avviso, questo quadro vi permette di comprendere in che consista la battaglia della fede, la battaglia cattolica, la battaglia cristiana nella città, la battaglia della Tradizione in questa spaventosa crisi della Chiesa, in questa apostasia.

Posso quindi passare adesso ad alcune riflessioni sulla nostra recente battaglia, quella che abbiamo condotto l’anno scorso, estremamente difficile, non a causa del nemico, in verità, che è quello di sempre, ma a causa delle differenze che ci sono state tra noi, differenze del tutto logiche, spiegabili, umane, poiché non bisogna scandalizzarsi, strapparsi le vesti perché scopriamo che siamo degli uomini. Abbiamo gli stessi limiti degli altri, voglio dire alla radice, cioè dal peccato originale: l’ignoranza, la malizia, la debolezza.

In pratica, il problema che si è presentato lo scorso anno scolastico, consiste nelle difficoltà o le prove tra noi, che peraltro sono le più difficili e le più dolorose. Ecco perché non bisogna prenderle alla leggera e ancor meno risolverle alla leggera. È come un piccolo conflitto famigliare, bisogna risolverlo, certo con molta delicatezza, molta carità, molta prudenza, molta finezza, ma bisogna risolverlo, certamente!

Breve storia delle nostre relazioni con Roma

Voglio esprimervi il mio pensiero, poiché in questa crisi si sentono molte opinioni diverse, divergenti, ed è possibile che vi siano ancora delle conseguenze, così, mi sono detto che dovevate conoscere almeno il mio pensiero. Riprendo quindi rapidamente alcuni fatti, per spiegarmi, ricordando gli eventi, a partire dalla fine della crociata del Rosario, crociata di preghiere che aveva lo scopo di offrire 12 milioni di Rosari, che si è conclusa a Pentecoste di quest’anno. Dopo la fine della crociata che abbiamo ricevuto tre risposte una dopo l’altra da parte di Roma.

La prima risposta

Vi era stata la proposta di una dichiarazione dottrinale da parte della Fraternità, presentata nel mese di aprile. Dopo la Pentecoste che abbiamo ricevuto una prima risposta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.

In questa risposta, le autorità romane ci dicevano chiaramente che non accettavano la nostra proposta, la rigettavano, e facevano diverse correzioni che si possono in sintesi riassumere così: dovete accettare il concilio Vaticano II; dovete accettare la liceità della nuova Messa; dovete accettare il magistero vivente, vale a dire questi fatti che sono interpreti autentici della Tradizione. Sono essi quindi essi che ci indicano che cos’è e che cosa non è la Tradizione; dovete accettare il nuovo Codice, ecc. Ecco la loro risposta.

La seconda risposta

In seguito, e io ritengo che sia stata una risposta della Provvidenza, vi è stata la nomina di Mons. Müller. Essi lo hanno nominato alla testa della Congregazione per la Dottrina della Fede, e anche Presidente della Commissione Ecclesia Dei – colui che ha la responsabilità di tutti coloro che sono collegati all’Ecclesia Dei e che è in contatto con la Fraternità San Pio X. Ebbene, questo vescovo che è stato nominato alla testa di questo dicastero e della Commissione Ecclesia Dei – oltre al fatto che ha messo in discussione diverse verità di fede – è oggi il custode della Fede. Ed è, diciamo, una vecchia conoscenza della Fraternità, poiché era vescovo di Ratisbona, diocesi in cui si trova il nostro seminario di Zaitzkofen, e abbiamo avuto con lui delle difficoltà, degli scontri. Tre anni fa aveva minacciato di scomunica il vescovo che sarebbe andato a fare le ordinazioni a Zaitzkofen, nell’occasione ero io. E minacciò di scomunica sia me sia i diaconi che avrebbero ricevuto il sacerdozio; i novelli sacerdoti. In seguito, ha tergiversato, ma si tratta di qualcuno che non ci stima, che non ci ama, è chiaro, e che ha già detto che i vescovi della Fraternità hanno una sola cosa da fare: rimettere il loro episcopato nelle mani del Santo Padre e andare a rinchiudersi in convento. Il che è assai crudele, no vi sembra? Poi, ha detto molto semplicemente che noi dobbiamo accettare il Concilio, punto e basta. Non c’era più niente da discutere. Mentre noi eravamo in attesa dei lumi dello Spirito Santo, abbiamo ricevuto questa risposta.

In seguito, prima del Capitolo generale, il nostro Superiore generale scrisse al Papa per sapere se veramente si trattava della sua risposta, poiché il problema che abbiamo conosciuto derivava in gran parte dal fatto che vi era un doppio messaggio da Roma. Certe autorità ci dicevano: la risposta della Congregazione della Fede è ufficiale, fanno il loro lavoro, ma voi non tenetene conto, bisogna archiviarla; in ogni caso noi vogliamo un accordo, vogliamo riconoscervi così come siete. Ma la risposta della Congregazione della Fede e la nomina di Mons. Müller non andavano in questa direzione, in quella di questo secondo messaggio.

La terza risposta

Così, per vederci chiaro, Mons. Fellay scrisse al Papa allo scopo di sapere se si trattava veramente della sua risposta, del suo pensiero. Appena prima del Capitolo, durante il ritiro che l’ha preceduto, Monsignore ricevette una risposta – era la prima volta che vi era una risposta del Papa a Mons. Fellay – e a tavola alla fine del ritiro ci disse: ho ricevuto una lettera del Papa nella quale mi conferma che la risposta della Congregazione della Fede è la sua risposta, che egli l’ha approvata. Ed egli ricorda, riassumendole i tre punti, le loro esigenze, le loro condizioni sine qua non per un riconoscimento canonico:

1) riconoscere che il magistero vivente è l’interprete autentico della Tradizione, cioè le autorità romane;

2) che il concilio Vaticano II è in perfetto accordo con la Tradizione, che bisogna accettarlo;

3) che noi dobbiamo accettare la validità e la liceità della nuova Messa.

Essi dicono “liceità” – probabilmente in francese questo termine è un po’ ambiguo – e per loro vuole dire semplicemente “legale”, che ha le forme legali, ma nel linguaggio canonico il significato è più profondo, vuol dire che è una vera legge, che ha forza di legge. Tuttavia la Chiesa non può avere una legge contraria alla fede cattolica. E noi abbiamo sempre contestato, in questo senso, la legalità della riforma liturgica e della nuova Messa, poiché essa non può avere forza di legge nella Chiesa, è impossibile, perché è contraria alla fede, perché con essa loro demoliscono la fede, eppure hanno scritto “validità” e “liceità”.

In altre parole potete constatare che su tutto l’essenziale della nostra battaglia – questa battaglia delle due città, dei due spiriti – bisognava cedere e tradire. Allora, evidentemente, su questo punto, la divina Provvidenza ci aveva indicato il cammino del Capitolo. Era Roma che diceva: si rimane sul piano dottrinale, e voi dovete accettare tutto quello che avete rigettato fino ad oggi.

Il Capitolo generale (9-14 luglio 2012)

Dopo si è svolto il Capitolo, non posso fornirvi troppi particolari poiché si è tenuti al segreto, ma lo stesso Mons. Fellay ha già fatto conoscere certe cose, e vi sono degli elementi che sono stati indicati nella Dichiarazione finale: le condizioni che voi conoscete. Quello che vi posso dire è che nel corso del Capitolo la divina Provvidenza ci ha assistito in maniera chiara e tangibile.

Tutto si è svolto molto bene, e vi dico molto semplicemente che abbiamo potuto parlare tranquillamente, liberamente, apertamente, abbiamo potuto affrontare i problemi cruciali, anche se abbiamo dovuto trascurare gli altri, le cose previste nel programma iniziale. Abbiamo preso tutto il tempo necessario per discutere e abbiamo confrontato i nostri punti di vista, come si addice a dei membri di una stessa congregazione, di uno stesso esercito. Il che non costituisce un problema, la Fraternità non è una scuola di scolarette… no?

Allora, se qualche volta vi sono delle discussioni tra noi, non bisogna farne un problema. Leggete il cardinale Pie, quando sostiene delle pubbliche discussioni con dei vescovi, in Francia, nel XIX secolo. Egli le giustifica, spiega il perché, dice che si tratta di una battaglia, ecco tutto!

Questo per dire che non bisogna farne un dramma. Il dramma sarebbe abbandonare la fede, ma che vi siano delle discussioni, delle questioni di opportunità prudenziale su questo o quello, è cosa normale. Vi sono degli aspetti differenti, vi sono dei temperamenti, delle situazioni… Si tratta di questioni molto complicate, e non si può tirare fuori la spada per tranciare il nodo gordiano, dicendo: ecco, io risolvo la questione d’un sol colpo, no!

Il Capitolo si è svolto come vi ho detto e penso che abbiamo veramente tratto delle lezioni utili dalle prove che abbiamo vissute, anche se non tutto è perfetto, cosa che costituisce un altro aspetto di cui bisogna tenere conto. Nella nostra vita, tutto si muove nell’imperfezione… leggete la storia della Chiesa! Non bisogna chiedere una perfezione che non è di questo mondo, ma bisogna avere gli occhi fissi sull’essenziale, su ciò che conta; dopo si può passare sopra a molte cose. Nella vita, non fate così in famiglia? Certo che lo fate. Altrimenti, nulla regge in questo mondo, in questa vita, e anche tra noi.

Certuni si inquietano, cercando il pelo nell’uovo. Bisogna considerare la complessità del problema, della situazione. Non dimentichiamo che vi è anche la parte delle passioni. Queste esistono anche da noi. Tutto questo per dirvi che, a mio avviso, non bisogna cavillare su queste questioni, bisogna vedere se c’è l’essenziale o no.

Secondo me, noi abbiamo veramente superato la crisi, l’abbiamo lasciata alle spalle, e com’era necessario, soprattutto nelle misure pratiche, grazie alle discussioni che ci hanno permesso di chiarire tra noi alcuni punti, di valutare bene gli argomenti, sotto tutti gli aspetti, di selezionarli, di giungere ad una visione più chiara, più lucida della situazione, cosa che costituisce il vantaggio delle prove, se se ne traggono delle lezioni. A partire da queste discussioni estremamente importanti e ricche, abbiamo stabilito delle condizioni che potrebbero permettere di considerare ipoteticamente una normalizzazione canonica, e a questo proposito, se riflettete bene, ciò che è stato fatto equivale all’aver preso tutta la questione dottrinale e liturgica per farne una condizione pratica.

Le condizioni per un’eventuale normalizzazione canonica

Sicuramente, come dicevo prima, questo non è perfetto, e noi stessi ci siamo accorti rapidamente subito dopo, che la distinzione tra condizioni sine qua non e condizioni auspicabili non era molto giusta, né… auspicabile. Infatti, per noi, tra le condizioni che abbiamo indicato come auspicabili vi sono delle condizioni sine qua non, ma piuttosto nell’ordine pratico, canonico, concreto. Queste condizioni, la Casa generalizia della Fraternità le aveva già sottoposte a Roma e in gran parte – dopo molteplici difficoltà e numerosi avanti e indietro – Roma era pronta a concederle, e perfino adesso. Ma lo scopo del Capitolo, la sua preoccupazione era di definire bene, non ciò che è una conseguenza, ciò che ne seguirà, ma l’essenziale preventivo che fino ad allora non avevamo definito.

In altre parole, nel caso della presenza di un papa, di un prossimo papa che volesse veramente fare un accordo con la Fraternità, quali dovessero essere le condizioni di ordine dottrinale, che attengono alla dottrina, alla fedeltà alla fede, alla Tradizione, alla confessione pubblica della fede e anche alla resistenza pubblica opposta nei confronti di coloro che diffondono gli errori, anche se si tratti di autorità ecclesiastiche. È su questa base che noi abbiamo definito con molta precisione le due prime condizioni sine qua non. Ed è evidente che tutto è presente. Ve lo posso rileggere.
La prima condizione: «Libertà di conservare, trasmettere e insegnare la sana dottrina del Magistero costante della Chiesa e della verità immutabile della divina Tradizione». Indubbiamente, questo vi sembrerà un linguaggio un po’ difficile, in effetti è estremamente preciso. «Conservare», significa che nel caso di una normalizzazione noi ne abbiamo la garanzia da parte del papa che ci riconoscesse. In altre parole: assicurarci per iscritto, in un accordo, di poter conservare, trasmettere e insegnare la sana dottrina, la santa dottrina del magistero costante. Perché le autorità romane hanno una concezione evolutiva del magistero, e se ci si dice “magistero”, questo non basta, se ci si dice “magistero di sempre”, nel loro linguaggio questo è ancora dubbio, così abbiamo precisato “verità immutabile della divina Tradizione”. Perché “verità immutabile”? Perché per loro la Tradizione è vivente… Così, potete vedere che questo è molto preciso, forte dell’esperienza dei colloqui che abbiamo avuto per quasi un anno e mezzo con la commissione romana.

Proseguiamo con questo primo punto: «Libertà di difendere la verità, correggere, riprendere, anche pubblicamente, i fautori di errori o di novità del modernismo, del liberalismo, del Concilio Vaticano II e delle loro conseguenze». Io penso che difficilmente si possa aggiungere ancora dell’altro. C’è tutto. Si tratta della libertà di confessare e di attaccare pubblicamente gli errori, la libertà di insegnare pubblicamente le verità negate o annacquate, ma anche di opporci pubblicamente a coloro che diffondono gli errori, anche se si tratti di autorità ecclesiastiche.

Quali errori? Gli errori modernisti, liberali, quelli del concilio Vaticano II e delle riforme che ne sono derivate o delle sue conseguenze nell’ordine dottrinale, liturgico o canonico. C’è tutto. Perfino una resistenza pubblica, fino ad un certo punto, al nuovo Codice di Diritto Canonico, nella misura in cui è permeato dello spirito collegiale, ecumenico, personalista, ecc. C’è tutto.

In seguito, secondo punto: «Usare esclusivamente la liturgia del 1962», dunque tutta la liturgia del 1962, non solo la Messa, tutto, anche il Pontificale. «Conservare la pratica sacramentale che abbiamo attualmente - inclusi l’ordine, la cresima, il matrimonio». Vedete che abbiamo incluso certi aspetti della pratica sacramentale e canonica che ci sono necessari per avere veramente, nel caso di un accordo o di un riconoscimento, la libertà pratica e reale in una situazione che continuerà ad essere più o meno modernista. Noi ordiniamo di nuovo, se necessario, cresimiamo di nuovo, e poi, per il matrimonio, non accettiamo evidentemente certe nuove cause di nullità.

Poi, sempre nelle condizioni sine qua non: «Garanzia di almeno un vescovo», ecco, vi dicevo che questo non è perfetto, poiché noi nella Fraternità siamo tutti d’accordo sul fatto che bisogna chiedere diversi vescovi ausiliari, una prelatura, siamo tutti d’accordo, non v’è problema, non c’era prima e non c’è adesso. Quindi non bisogna cavillare su questo. Di contro, abbiamo ben definito quello che era un problema, perché giustamente la cosa non era chiaramente definita da parte nostra, e anche perché vi era un doppio messaggio da parte di Roma.

E in questo Capitolo è stato anche deciso che se mai la Casa generalizia potrà giungere a qualcosa di valevole e di interessante con queste condizioni, vi sarà un Capitolo deliberativo, il che significa che la sua decisione vincolerà necessariamente i membri della Fraternità. Quando vi è un Capitolo consultivo, si chiede consiglio, e dopo l’autorità decide liberamente. Un Capitolo deliberativo significa che la decisione presa dalla maggioranza assoluta – la metà più uno, cosa che ci è sembrata ragionevole – tale decisione sarà seguita dalla Fraternità.

Come ha provato il recente Capitolo, il giorno in cui abbiamo potuto parlare tra noi, come si doveva, abbiamo superato il problema dei disaccordi che avevamo conosciuti. È evidente che un Capitolo deliberativo costituisce una misura molto saggia e sufficiente per approvare eventualmente ciò che si sarà potuto ottenere da Roma. Poiché è quasi impossibile che la maggioranza, il Superiore della Fraternità – dopo una discussione franca, un’analisi approfondita di tutti gli aspetti, di tutti i pro e i contro -, è impensabile che la maggioranza si sbagli in materia prudenziale.

In questa vita, non v’è alcuna garanzia assoluta, perché ciascuno – a cominciare da me stesso – non ha tutte le garanzie su ciò che farà domani. Così un Capitolo è largamente sufficiente per uscire dallo stallo nel quale ci trovassimo, poiché, se voi guardate bene, questo nostro ultimo Capitolo ha posto esattamente le stesse condizioni di Roma, ma al contrario. Loro esigono da noi la tal cosa, noi il contrario. Evidentemente la possibilità di un accordo si allontana e soprattutto il rischio di un cattivo accordo, a mio avviso, è definitivamente scartato. Definitivamente, cioè non per sempre, ma almeno per questa volta.

Abbiamo anche evitato una divisione tra noi, e questo non è poca cosa, bisognava quanto meno riflettervi e comprendere che andavamo a dividere tutto, nella Fraternità, nelle Congregazioni, nelle famiglie, e siccome noi siamo piuttosto temibili nella battaglia, ci saremmo dilaniati con una forza, una costanza che potete l’immaginate! La realtà era proprio questa. Ma grazie a questa comprensione tra noi, grazie a questa decisione, anche se è imperfetta, abbiamo superato una divisione che sarebbe stata una sorta di disonore per ciò che difendiamo, per la vera fede, per la nostra battaglia, per quelli che ci hanno preceduti, Mons. Lefebvre e Mons. de Castro Mayer.

Delle condizioni in vista del bene che potremmo fare nella Chiesa

In seguito, come vi ho già detto, è grazie a ciò che abbiamo vissuto, alle prove, alle discussioni, talvolta alle contraddizioni, che siamo arrivati ad una migliore comprensione della realtà, ad una migliore definizione.

Adesso, la posizione della Fraternità è molto più precisa e lucida che sei mesi fa, è molto migliorata, poiché non escludiamo la possibilità che la via scelta dalla Provvidenza per un ritorno alla fede consista prima di tutto in una conversione, in un ritorno alla dottrina, di un papa e di una parte dei cardinali, noi questo non l’escludiamo minimamente. Questa via non è più difficile dell’altra, la via pratica.

Ma, molto semplicemente, ci siamo detti: ammettiamo che non si abbia innanzi tutto un ritorno da parte di Roma, di un prossimo papa alla Tradizione, nella teologia, nei principi, nella fede, nell’insegnamento, nel caso in cui questo papa volesse solo permettere la Tradizione, quali sono le condizioni che ci autorizzerebbero ad accettare una normalizzazione canonica, in vista del bene che potremmo fare nella Chiesa e che è considerevole - questo non bisogna negarlo.

A mio avviso, si tratta di un miglioramento nello stesso senso. Abbiamo definito quali sarebbero le condizioni che potrebbero proteggerci totalmente nella fede e nella battaglia integrale per la fede. Ma fare congetture sull’avvenire è cosa che attiene alla profezia o alla divinazione, noi non sappiamo ciò che il Buon Dio ci manderà.

Vi presento un caso indicativo, un’ipotesi: supponiamo che domani vi sia un papa nella situazione attuale, ma che di per sé non sia modernista nel suo pensare, com’è il caso di adesso, supponiamo che non sia modernista nella teologia, nel suo pensiero, nel suo cuore, e che voglia veramente ritornare alla Tradizione, ma che manchi un po’ di convinzione, poiché, e voi lo sapete bene, se per resistere nella vera fede e perseverare è necessaria molta convinzione, per fronteggiare tutto il modernismo che infesta la Chiesa occorre una convinzione veramente eroica. Supponiamo che egli non abbia questa convinzione o che sia molto convinto, ma debole, timoroso, condizionato dal suo entourage – io vi delineo dei casi offerti dalla storia della Chiesa, e ci sono stati dei vescovi e dei papi di questo tipo. Ci sono stati dei papi molto buoni in dottrina, ma che erano molto cattivi nei costumi, e vice versa dei papi deboli, così come dei papi molto buoni che si sono sbagliati, adesso diciamo che si sono sbagliati in certe decisioni storiche che hanno avuto delle conseguenze enormi.

Quindi, nell’eventualità di un papa che non avesse la convinzione, la forza o i mezzi per raddrizzare lui stesso l’attuale situazione della Chiesa, in questa crisi della fede egli potrebbe benissimo servirsi di noi come di una punta avanzata, potrebbe benissimo accordarci le condizioni richieste, perché noi si possa essere la punta acuminata contro questo ascesso. D’altronde, riflettendo bene, se un papa un giorno ci accordasse queste condizioni, sarebbe lui stesso ad infliggere il primo colpo contro l’edificio del concilio Vaticano II e della Chiesa conciliare, poiché così facendo egli ammetterebbe già che il Concilio contiene degli errori, che lo si può rifiutare e che occorre ritornare alla Tradizione. Non appena un papa prendesse in considerazione queste condizioni esigenti, cosa quasi impossibile in termini umani, vi sarebbe la guerra nella Chiesa conciliare. La sedicente Chiesa conciliare sarebbe devastata, questo è chiaro. È per questo motivo che ai nostri occhi le questioni canoniche sono dei piccolissimi dettagli. Poiché se un papa volesse accordarci i due primi punti, significherebbe che è pronto a concederci tutto, anche in campo canonico e sicuramente noi glielo chiederemmo.

Necessità e utilità delle prove

Evidentemente, io avrei molte cose da dirvi ancora, ma penso di avervi detto il più interessante. Una riflessione, per finire, a proposito della necessità e dell’utilità delle prove, che è un insegnamento cattolico, tradizionale, e che si trova nella Sacra Scrittura, in cui l’angelo dice a Tobia: «Perché eravate graditi a Dio, era necessario che vi giungesse la prova» (Tobia 12, 13), poiché dalla prova si trae un gran bene. Sant’Agostino dice che il peggio che possa capitare, il peggiore dei guai, è quello di coloro che non traggono insegnamento, profitto dalla disgrazia, quindi il più infelice al mondo è colui che di fronte alla disgrazia non ne apprende le lezioni e il bene che può trarne, tale che la sua prova attuale è peggiore della precedente.

Fate attenzione. Se vi è un’utilità in una prova, ciò vuol dire che bisogna raccoglierla, che bisogna trarne dei frutti. Abbiamo sempre la tendenza a trarre le lezioni dalle calamità, dalle sofferenze e dalle prove per gli altri: «Ecco! Hai visto che avevo ragione, è chiaro che hai preso un bel colpo».

Ma in una prova vi sono tanti insegnamenti e si potrebbe dire che sono le debolezze e le mancanze di noi tutti che sono messe a nudo attraverso le prove. Così ognuno deve trarne insegnamento per se stesso, per correggersi e non rifare gli stessi errori, poiché sovente, pur difendendo una buona causa lo facciamo molto malamente.

Vi sono delle lezioni di umiltà da trarne, è una cura di umiltà, e tanto meglio, perché questo ci chiama alla vigilanza. Forse sonnecchiamo, forse non trasmettiamo molto bene alle generazioni future lo spirito del combattimento, forse bisogna ricorrere di più a Dio, forse ci occorre maggior pazienza, maggiore forza, maggiore speranza nella battaglia. Tutto questo si muove insieme: forza, coraggio, pazienza. La virtù della forza ha due movimenti: "sustinere" et "aggredi". Il che significa che bisogna soffrire, subire, sopportare, ma anche intraprendere, attaccare – non aggredire, non si può tradurre aggredi con aggredire, ma con attaccare e intraprendere.

Anche la magnanimità rientra nella virtù della forza. Come dice San Paolo, è la pazienza che genera la speranza, la pazienza nel combattimento, nelle prove. Oggi facciamo attenzione alla speranza, poiché possiamo cadere per mancanza di fede, per mancanza di carità, ma anche per mancanza di speranza. Si diventa pessimisti o disfattisti, che è una maniera di arrendersi. Allorché non c’è più la speranza, ci si disimpegna e si è vinti.

Le prove sono anche un mezzo per meritare, per espiare, spesso sono un vaccino. Forse ci è successo di subire oggi un’influenza, per evitare domani una polmonite. Penso che sia così. Spesso le prove sono una preparazione per altri combattimenti, perché si sia più lucidi, più decisi, più vigilanti su quanto può capitarci. Chi lo sa?

Volevo dirvi tutto questo perché, se non si traggono dei frutti dalle prove, si devia. Infatti Dio ci manda queste prove proprio per mantenerci sulla strada giusta, ci conduce a riesaminare tutto per mostrarci dove eravamo in procinto di cedere o di deviare un po’, talvolta a sinistra, talvolta a destra, spesso in basso.

In questa crisi, uno degli insegnamenti che potrà ancora meglio evidenziarsi è lo scopo della prova, che è giustamente quello di vedere dov’erano gli eccessi e i difetti, poiché talvolta vi sono insieme e gli eccessi e i difetti. In altre parole, vedere dove vi è un disordine, e io parlo del disordine della ragione, prima di tutto nella prudenza, perché è evidente che queste questioni di prudenza sono una questione di intelligenza. Occorre considerare dov’era l’irragionevolezza, la dismisura. Talvolta vi sono degli eccessi nella difesa di ciò che bisogna precisamente difendere; ci si lascia andare alle passioni smisurate, agli eccessi, basta vedere le nostre impazienze nel risolvere la crisi, le nostre urgenze. Questo può spingere in molti sensi, e dunque occorre fare molta attenzione a tutti questi aspetti. Se abbiamo avuto delle debolezze in questo senso, correggerle, ecco la lezione. Questa è la ragione per la quale il Dio ha permesso la prova. Se noi facciamo questo, tutto il corpo ne risulterà molto più forte e pronto per altri combattimenti ancora più grandi.

Non opporre la verità alla carità

Facciamo sempre attenzione ai falsi dilemmi che ci si presentano, e per i quali siamo sempre tentati, per situazione in cui ci troviamo. Si dirà che bisogna andare contro la verità o contro la carità, contro la fede o contro la misericordia, contro la prudenza o contro la forza. Nient’affatto!

Occorre conservare tutte queste virtù, per rimanere sulla buona strada. Ora, tutti abbiamo la tendenza a privilegiare ciò che è più conforme al nostro temperamento, al nostro carattere, cosa che ci risulta più facile. Spesso dimentichiamo l’altro aspetto. Quando si dice che c’è bisogno di un ordine, un equilibrio, una misura, questo non significa che bisogna essere comunque mediocri. Voi sapete bene che non è questa la virtù.

La virtù morale è una vetta tra un eccesso e un difetto. E anche le virtù teologali, nella loro applicazione alla vita, alle opere, all’azione, alle circostanze, possono avere degli eccessi e dei difetti, non la virtù in quanto tale, nel suo oggetto proprio che è Dio, poiché non si potrà mai amare troppo Dio. Ma si può amare Dio malamente, pur credendo di amarlo bene. Quante volte vediamo questo, soprattutto tra di noi.

Dunque, vi è tra noi un doppio rischio costante, ed è nelle prove che bisogna cogliere l’insegnamento per sé e per tutti, ma non bisogna fare troppe previsioni sulle persone, sulla loro evoluzione futura. Vi è la grazia di Dio, tutti siamo capaci di riscatto e di redenzione.

Vi sono anche delle cadute, così, fin quando una crisi non è finita, non si deve fare un bilancio. È possibile che certuni. presi alla sprovvista dalla prova, alla fine abbiano una reazione molto buona. Ed altri invece, che all’inizio avevano avuto un’ottima reazione, evolvano poi malamente.

Non si deve conservare solo la fede, la professione della fede. C’ è anche la vera carità, l’amore, la prudenza, la forza, l’amore per la Santa Chiesa. Noi siamo cattolici, e intendiamo restare totalmente cattolici, e per questo non basta conservare la fede.

In conclusione, io penso che abbiamo tre stelle, tre lampade che ci hanno preceduti e che possono guidarci senza il rischio di perderci nella dottrina, nella prudenza, nello spirito cattolico. Queste tre personalità sono il cardinale Pie, il Papa San Pio X e Mons. Lefebvre, ciascuno di essi era perfettamente adatto alla propria epoca e ai bisogni della Chiesa, con degli stili diversi, dei doni diversi, ma anche con tante qualità simili, che sono necessarie proprio oggi, nella battaglia per la fede. Potremmo traacciare una linea tra il cardinale Pie, San Pio X e Mons. Lefebvre, e se voi prolungate questa linea avrete il cammino che bisogna seguire. Esattamente. Sia sul piano dottrinale, sia su quello della fede, sia nella santità di vita – ecco ancora un argomento su cui si potrebbe parlare a lungo! – sia nella preghiera, nella confessione della fede, nella forza, nella prudenza.

Essi sono esemplari; è necessario che li prendiamo come modelli, che li seguiamo. E, per così dire, la linea è tutta tracciata. Specialmente oggi, che è sabato 13 ottobre, anniversario dell’apparizione di Fatima, dove è avvenuto il miracolo del sole, chiediamo alla Santissima Vergine Maria di darci la grazia di perseverare nella vera fede, nel vero combattimento per la fede, ma anche nel vero spirito della Chiesa, per essere ogni giorno più fedeli alla grazia, a Dio e alle esigenze di santità della nostra epoca.

Che la Madonna ci doni la grazia di essere degni successori e degni figli di questi grandi combattenti per la fede cattolica!

NOTE

1 – Panegirico di San Luigi, Re di Francia, predicato dal cardinale Pie nella cattedrale di Bois, Domenica 29 agosto 1847 e nella cattedrale di Versailles, Domenica 27 agosto 1848.

2 – Mons. Parisis, vescovo di Langr, Istruzione pastorale sul potere divino nella Chiesa, 1846.

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