agoniadi don Gabriele D'Avino

Quando agiamo, non lo facciamo sempre e solo per nostra volontà; similmente, quando ci asteniamo dall’agire, ciò non deriva soltanto da una prudente e ragionata estimazione. Spesso, la nostra condotta è – in misura maggiore o minore – guidata ed ostacolata dalla nostra parte sensibile, l’apparato passionale. Ciò avviene, tipicamente, quando siamo agitati dalla paura.

 Il Timore, nell’ultima coppia di passioni analizzate da San Tommaso, si definisce come la passione che ha per oggetto un male futuro difficile da sostenere e a cui non si può resistere[1].

In primo luogo, dunque, un male, sia esso oggettivo o solo immaginario; lo studente ha paura dell’esame, non perché esso sia cattivo in sé (ché anzi costituisce il modo per ottenere una gratificazione) ma perché si teme l’eventuale effetto cattivo (il rimando, la bocciatura, il rimprovero dei genitori) nel caso in cui la preparazione intellettuale non sia sufficiente.

Un male futuro, che non ci ha ancora colpito e che non necessariamente lo farà: chi va fuori strada con l’automobile, teme seriamente un impatto, anche se esso non è sicuro; l’aspetto cronologico è quello che distingue infatti il Timore dalla Tristezza, che è la passione scatenata in relazione ad un male presente.

Un male futuro difficile da sostenere e a cui non si può resistere: si differenzia in questo dalla Fuga, che non tiene conto della difficoltà ma solo della sua nocività; un tizio che incontra per strada un suo creditore cerca di fuggirlo per evitare l’esazione del debito; ma se c’è il rischio che il creditore lo malmeni, e che egli non sia in grado di difendersi, ne avrà in più timore.

San Tommaso saggiamente enumera sei specie di timori[2]: tre interni, che sono la pigrizia (si teme l’eccessivo lavoro che aggravi la natura), il pudore (si teme la lesione della reputazione per un atto da compiere) e la vergogna (si teme la lesione della reputazione per un atto già compiuto); tre esterni, che sono lo sgomento di fronte alla grandezza di un male, lo stupore per un male che, oltre che grande, sia anche inconsueto, ed infine l’agonia, per la quale si teme un male a causa del suo carattere improvviso e repentino.

Come per tutte le altre passioni, anche queste specie di timore sono in sé neutre, e la loro bontà morale si giudicherà dall’oggetto; il pudore ad esempio assume un carattere addirittura virtuoso quando si teme di compiere un’azione disonesta: pensiamo alle giovanissime vergini e martiri dei primi secoli che preferirono atroci tormenti e la morte pur di non intaccare la propria virtù; similmente la vergogna è un nobile sentimento quando lo si riscontra in un peccatore che sta per fare ammenda delle sue colpe. Ma se questi due movimenti dell’animo hanno, al contrario, un bene come oggetto (si accompagneranno allora al rispetto umano), come ad esempio in chi teme di confessare pubblicamente la fede per non essere deriso, allora essi saranno cattivi e andranno superati.

Ma cos’è che causa il Timore? San Tommaso enumera due fattori: l’amore del bene opposto e la debolezza[3].

Chi ama ardentemente un bene è portato tanto più ardentemente a temere che possa capitargli qualcosa di male; l’avaro, ad esempio, quanto più si attacca alle ricchezze che possiede, tanto più (e spesso irrazionalmente) teme i ladri che possano sottrargliele; questo timore naturalmente è cattivo perché procede da un amore sregolato. Una madre che ami teneramente i suoi figli avrà naturalmente paura di ogni cosa che possa costituire per loro, anche lontanamente, un pericolo, e sarà portata ad essere protettiva; questo timore di per sé è buono, ma facilmente può essere sregolato per mancanza di proporzione.

Quanto alla debolezza, s’intende qui una causa fisiologica soggettiva; pensiamo ad un male non insormontabile (portare un pacco pesante sulle spalle) ma che, in ragione dell’età e delle condizioni di salute, risulterà difficile da affrontare ad una persona anziana, la quale magari proverà a farlo ma con la paura di non riuscire. Bisognerà del resto che ci sia anche una vaga speranza di riuscirci e non una impossibilità completa: un condannato a morte che abbia mani legate e che stia salendo al patibolo non avrà paura dell’impiccagione che per lui è un male praticamente presente; proverà invece la passione di disperazione e quella di tristezza.

Infine, le conseguenze del Timore: oltre ad un effetto interno relativo all’anima, che è la passione di fuga immediatamente innescata, San Tommaso enumera tra gli effetti corporali esterni la contrazione delle membra che si constata nell’esperienza; così come i cittadini di un villaggio assediato si ritraggono all’interno se non hanno vie di fuga, che è oppresso dalla paura si ritrae in un certo senso in se stesso quasi fisicamente, contraendo appunto i muscoli e le membra[4].

Altri effetti poi sono ripresi da Cicerone: tremore, pallore, crepitio di denti[5]. In particolare il tremore è causato, secondo l’Aquinate, dalla diminuzione di calore nel corpo in particolare nel cuore, sede di questo calore; donde poi il tremore che si propaga in modo speciale a ciò che fisicamente è più vicino al cuore, come il petto: ecco perché a chi teme spesso trema la voce e il labbro inferiore[6].

Tali effetti apparentemente degradanti ed indegni sono in realtà comuni nella natura umana, più o meno presenti, certo, in relazione alla debolezza o forza fisica di ciascuno, ma anche delle circostanze, e infine della maggiore o minore sensibilità. Chi è più sensibile (anche fisicamente) ad un male ha una perfezione maggiore, perché ciò prevede uno sviluppo delle facoltà conoscitive che sono, appunto, i sensi; ma allora sarà anche più esposto a subire gli effetti (lo ripetiamo: naturali) delle passioni: un caso eccellente è quello di Nostro Signore, il quale, dotato di una natura umana perfetta, aveva anche una acutissima sensibilità, cosa che comportava una possibilità di sofferenza di gran lunga maggiore di quella che abbiamo noi.

Gesù nel Getsemani ed al Calvario soffrì enormemente nel corpo e nell’anima, e volle sottomettersi anche a questa passione di Timore: l’Evangelista San Marco ci dice che, allorché si trovava nell’orto degli Ulivi, «coepit pavere et taedere», «cominciò a tremare e ad essere in preda all’angoscia»[7].



[1] S.T.  Ia – IIae, Q. 41, a. 2 c.

[2] Ibidem, art. 4.

[3] Ibidem, Q. 43 a. 1, 2

[4] Ibidem, Q. 44 a. 1

[5] Cicerone, Tusc. IV, cap 8

[6] S.T.  Ia – IIae, Q. 44, a. 3 ad 3

[7] Mc, 14, 33