ultima cenadi don Gabriele D'Avino

Immediatamente conseguente alla coppia Amore – Odio, l’appetito sensitivo è soggetto di un’altra coppia di passioni, quella cioè di Desiderio – Fuga. Il Desiderio è chiamato anche “concupiscenza”, in un senso più generico di quello che si intende comunemente con questa parola, vale a dire un desiderio di per sé disordinato ed incline al male.

Come le altre passioni, il Desiderio è inizialmente neutro e si differenzia dall’Amore perché quest’ultimo è una semplice compiacenza di un bene sensibile considerato in sé (un bambino ha in mente un gelato e il pensiero gli provoca una certa attrazione verso tale bene); si differenzia inoltre dalla passione di Gioia perché quest’ultima fa riferimento ad un bene considerato come presente (un bambino ha in mano un gelato e lo sta gustando “con passione”: la passione di Gioia, appunto); quanto al Desiderio, invece, siamo di fronte ad una passione che riguarda un bene sensibile considerato precisamente in quanto assente, assenza che provoca un moto della facoltà sensitiva (un bambino vede altri suoi coetanei con i loro gelati in mano, mentre lui non ne ha alcuno…). San Tommaso, per mettere un po’ di ordine tra queste tre passioni dell’appetito sensitivo che riguardano il bene (Amore, Desiderio e Gioia) dice che il Desiderio o Concupiscenza è causato dall’Amore e tende alla Gioia (Ia IIae, Q. 30 a. 2 S.C.).

L’Angelico passa poi a distinguere dei desideri naturali, che Aristotele chiama anche necessari[1], da quelli non naturali o razionali, che infatti Aristotele chiama cum ratione[2].

In effetti esistono dei moti dell’anima comuni anche agli animali bruti che riguardano gli istinti naturali legati alla corporeità e ai beni necessari al sostentamento: il cibo, il riposo, la riproduzione; tali istinti sono considerati necessari e riguardano unicamente la parte sensitiva dell’anima. Va da sé, naturalmente, che tali moti nell’uomo sono poi riconducibili alla ragione; l’uomo può infatti decidere se e quando accondiscendere a tali desideri, con che intensità, ecc. Ma resta il fatto che l’oggetto del desiderio detto naturale è un bene necessario.

I desideri cosiddetti razionali sono invece quelli che già dall’inizio implicano, oltre all’istinto che porta a volere un dato bene, anche una certa conoscenza del bene in questione, in quanto proporzionato alla natura razionale dell’uomo (Q. 30, a.3), e che non portano solamente al sostentamento necessario della vita, ma ad un miglioramento di essa[3]: volendo utilizzare sempre l’esempio del cibo, diremo che, mentre il Desiderio naturale porta l’uomo (e anche l’animale bruto, del resto) a volersi semplicemente nutrire per sfamarsi, il Desiderio razionale porterà l’uomo (e soltanto l’uomo) a bramare un cibo prelibato, ben preparato. In tale ambito rientrano anche le ricchezze materiali, non in se stesse necessarie ad esse simpliciter (cioè per la stessa esistenza dell’uomo, come il nutrimento), ma soltanto ad melius esse (cioè per condurre una vita migliore, più comoda).

Le circostanze morali porteranno infine l’uomo ad una valutazione completa dell’atto da compiere, includendo il giudizio dell’intelletto e il dettame della volontà: una volta mosso dalla passione, l’uomo valuterà la liceità dell’azione e deciderà (più o meno sotto la spinta del Desiderio) se acconsentire o meno alla spinta dell’appetito sensitivo.

C’è da notare poi come il Desiderio naturale sia finito in atto e infinito in potenza: infatti chi ha bevuto e mangiato è sazio sul momento, essendo limitate le sue capacità nutritive; ma considerato in sé può riprodursi infinite volte, se si pensa che chi abbia digerito ritornerà ad avere fame e sete finchè avrà vita. È del resto quel che dice Nostro Signore nel Vangelo alla Samaritana: «Chi berrà di quest’acqua (l’acqua naturale, N.d.A.) avrà ancora sete» (Gv, 4, 13).

Il Desiderio razionale è invece infinito sotto tutti i punti di vista, poiché, almeno in astratto, si possono sempre immaginare condizioni “migliori” di vita, laddove “migliori” si intende per la sensibilità e non necessariamente secondo la morale; tant’è che i Desideri razionali possono facilmente portarsi su un oggetto cattivo o comunque eccessivo rispetto alle esigenze dell’uomo. Dice infatti il padre Ramirez (commentando la Ia IIae della Somma Teologica) che i lussuriosi desiderano un numero infinito di donne, oggetto della loro prava concupiscenza; i golosi similmente desiderano infiniti cibi e di infinite varietà; le donne, poi, sogliono desiderare un numero infinito di vestiti preziosi e di altri apparati, e così via[4].

Tra gli effetti corporali della passione di Desiderio il padre Ramirez enumera quelli del cuore: tedio, fastidio, inquietudine; quelli della bocca: sospiri, gemiti; quelli delle azioni: lo sforzo, l’impeto, la corsa.

Quando il penitente, al confessionale, si accuserà di “desideri cattivi”, ancora bisognerà precisare se vi ha acconsentito o no: un desiderio può sorgere nell’animo alla vista di un bene sensibile considerato come assente, il quale può essere un male nelle attuali circostanze (una persona dell’altro sesso che attira intensamente uno che sia già sposato; l’impeto verso un bel piatto di carne il venerdì santo). Finquando tale desiderio non sarà accolto nel cuore anche dal deliberato consenso della volontà, resterà solo una passione: come tale, senza peccato.

Notiamo per concludere come nel Vangelo ci sia traccia di questa passione a proposito di Nostro Signore stesso: «Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum», («Ho desiderato intensamente mangiare questa Pasqua con voi»), in Lc, 22, 15: trattasi in questo caso di un Desiderio razionale, poiché Gesù brama precisamente non tanto gustare del cibo, quanto di consumare l'Agnello Pasquale in compagnia dei suoi amici: la convivialità è infatti propria dell’uomo. Naturalmente in questo caso, trattandosi di Nostro Signore, non possiamo dubitare che l’oggetto e il modo di tale passione siano buoni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] III Etic., XI, 1118b8

[2] I Rhet., XI, 1370a18

[3] (cfr. Ramirez, Opera Omnia V, De passionibus animae, n° 249)

[4] Ibidem, n° 255.