di Don Régis de Cacqueray – ottobre 2012Jeans

Cari Amici e Benefattori,

in occasione di un pellegrinaggio, abbiamo fatto riferimento ad un ultimo argomento per chiedere a tutti i fedeli della Tradizione cattolica una conveniente tenuta nell’abbigliamento: si trattava di un semplice avviso tratto benevolmente dalla Guida Michelin di Roma per l’anno 2000… E per richiamarlo alla memoria, ecco cosa diceva:

«È necessario un abbigliamento appropriato: pantaloni per gli uomini, gonne dalla lunghezza giusta e spalle coperte per le donne». Era un modo per dire: «Vedete, anche a Roma, capitale della Cristianità, e a dispetto di tutto ciò che noi per altro vi deploriamo, le esigenze dell’abbigliamento non sono state abbandonate.» Si avrebbe dunque torto a pensare che sarebbero solo i sacerdoti della Fraternità San Pio X che prestano attenzione a questa questione.

Nel corso di quell’anno giubilare del 2000, è anche accaduto a questo o a quel fedele proveniente da una cappella della Fraternità, di essere stato respinto davanti ad una basilica romana dalle guardie del Vaticano per un abbigliamento giudicato immodesto! Eppure, la nostra ricerca di argomenti col ricorso al comportamento nelle  basiliche romane o alla Guida Michelin, non esprime la nostra difficoltà ad essere compresi in un dominio che tuttavia appartiene alla disciplina ecclesiale? Come ricordare anche oggi, com’è peraltro nostro dovere, delle verità che sembrano così impopolari?

Mi si perdoni se ho provato a farlo in questa Lettera agli amici e benefattori. Penso che quelli tra voi che si prenderanno la pena di leggerla senza pregiudizi, possano meglio comprendere che l’abbigliamento, lungi dall’essere unicamente una questione di vestiti, è sempre il riflesso di un’anima, di una civiltà, direi perfino di una teologia. Può essere il riflesso del Vangelo e delle belle virtù della vita cristiana, ma si può anche essere il simbolo di costumi leggeri e perfino di una filosofia libertaria, violentemente ostile a Dio, alla legge naturale e alla Rivelazione. In particolare, mostreremo come i promotori della teoria del «gender» sappiano perfettamente a cosa mirano quando si basano sulla moda per banalizzare la loro abominevole rivoluzione.

Un discorso vecchio e consumato

Lascio dunque da parte deliberatamente i veri argomenti autorevoli in materia: la Sacra Scrittura che rivela il triste stato di Adamo ed Eva dopo il peccato originale e la necessità, a quel punto, di coprire la nudità dell’uomo, non solo in ragione delle intemperie, ma anche delle leggi della concupiscenza. Sorvolo anche sul Deuteronomio che afferma: «Una donna non si metterà un indumento da uomo né l’uomo indosserà una veste da donna; perché chiunque fa tali cose è un abominio al Signore tuo Dio»[1]. Ignoro San Paolo che esige che le donne indossino «abiti decenti, adornandosi di pudore e di riservatezza»[2] e siano coperte nelle azioni religiose[3]. Trascuro San Lino, che governò la Chiesa immediatamente dopo San Pietro e che decretò che nessuna donna entrasse in una chiesa senza avere la testa coperta da un velo. Metto da parte la Summa Teologica dove San Tommaso spiega che «L’abbigliamento esterno deve essere adatto alla condizione di ogni persona» e che «è peccaminoso che una donna si vesta da uomo»[4] salvo circostanze eccezionali (come conferma l’esempio di Santa Giovanna d’Arco). E a questo punto, trascuro la lettura di Pio XII che ricorda le regole della modestia cristiana[5] e lo stesso Diritto Canonico, che riassume duemila anni di Tradizione e che esige che le donne «devono portare un velo sulla testa ed essere vestite con modestia, specialmente quando si avvicinano alla mensa del Signore»[6].

Certi cattolici ritengono forse che tutto questo non abbia più molta importanza e non sia più di attualità. Tuttavia, il peccato originale e le sue conseguenze non sono di tutte le epoche e non lo saranno fino alla fine del mondo? Le disposizioni pratiche adottate dalla Chiesa, che si fondano sui principi della fede e ne sono solo le conseguenze morali, valgono sempre e non potranno mai essere obsolete. Né gli uomini, né le donne e le ragazze potranno dunque sottrarsi, in coscienza, alle regole tradizionali di modestia, sia nella vita corrente sia nella frequentazione degli edifici sacri. Ma ho detto che avrei lasciato volontariamente da parte, per questa volta, tali autorità e tali discorsi, già ascoltati così spesso da apparire vecchi e consumati, per proporvi altre considerazioni ricavate dai nostri nemici.

Un fatto nuovo e rivelatore: la teoria del “gender

La teoria del “gender” pretende che ogni individuo, indipendentemente dal suo sesso, sia libero di scegliere il suo genere, maschile o femminile, o entrambi, fin dall’infanzia. Dopo qualche mese, tutte le persone ancora sane di mente hanno alzato le braccia al cielo di fronte alla diffusione mondiale della promozione del “gender”. Questa reazione naturale e legittima pone peraltro una questione interessante. Infatti, i sostenitori della rivoluzione sessuale permanente, i fabbricanti e i propagatori di quest’idea mostruosa, espongono tranquillamente, nelle loro pubblicazioni accessibili a tutti, il perché e il per come la moda dell’abbigliamento sia stata e sia ancora il veicolo decisivo che ha permesso loro di cambiare le mentalità. È questo che dà loro la speranza di avviare l’umanità verso l’ideale dell’amore infine divenuto libero, liberato dagli ultimi impedimenti e dagli ultimi tabù… Io non vi raccomando di comprare le loro pubblicazioni. Ne ho comprate due per vederci chiaro. Se noi cattolici sottovalutiamo l’importanza dell’abbigliamento, possiamo vedere come questo non sia  proprio il caso dei nostri avversari.

I nostri nemici lo sanno!

Tutti i nemici della Chiesa hanno delle convinzioni profonde sull’importanza della questione dell’abbigliamento. Ecco una delle affermazioni più antiche delle logge massoniche: «Per distruggere il cattolicesimo, bisogna cominciare a sopprimere la donna. Ma poiché non possiamo sopprimerla, corrompiamola»[7]. Questa affermazione trova la sua espressione adeguata nelle opere più recenti. La prima è un libro intitolato: «Jeans, 150 ans de légende»[8]. L’opera porta la prefazione di Marithé et François Gribaud, grandi profeti del jeans Denim, che nel 1967 hanno inventato l’arte di lavare artificialmente i jeans. In questa prefazione essi affermano: «Dal 1964 abbiamo tracciato dei segni nella materia, che sono diventati una scrittura, dei codici per molti… Noi siamo i figli del dopo guerra, gli hippies del 68, abbiamo reagito alla maniera punk, siamo stati insieme traveller e new age. Abbiamo partecipato ai grandi momenti di ciò che stava diventando la moda yéyé, l’unisex, lo sportwear, il jeans, il casual, l’attivo, lo sport city, l’urbanwear che diventa streetwear, il tech-nike. Noi non siamo né etnologi, né ergonomi, né sociologi. E tuttavia in ogni collezione segniamo un nuovo marchio sul totem o sulle pareti della caverna. E talvolta lasciamo delle tracce visibili, oggi sempre più invisibili ad occhio nudo.» Nel capitolo intitolato Gli hippies, si può leggere: «Per cancellare le abitudini sessiste e indignare gli imbecilli, ragazze e ragazzi si abbigliano volentieri allo stesso modo… A Parigi, nel maggio 1968, sulle barricate, altro fronte strategico e ideologico della contro-cultura, il jeans diventa indumento-feticcio, simbolo della contestazione, della libertà. E soprattutto della gioventù…»[9]. Vi si trova anche questa confessione di Pierre Bergé: «il jeans ha abolito le classi sociali e lanciato l’unisex.»[10]

L’analisi dell’indice di questo libro si rivela molto interessante. Esso presenta sette capitoli relativi a tutti quelli che hanno fatto la gloria del jeans. Ecco alcuni elementi: La moda, con in testa Yves Saint-Laurent; I Cowboys (uno stile di vita americano che diverrà una moda); I Bikers; I Rockers (Elvis, I Beatles, Gli Stones, I Punk… sono tutti «jeans-dipendenti»: un’attitudine Rock’n’Roll); Gli Hippies (il jeans, all’epoca di Woodstock, conobbe le sue ennesime rivoluzioni anticonformiste); Lo Street (uno stile radicale adottato dai ghetti, dagli skatters e dai rapper come segno di riconoscimento). Non è difficile constatare che tutti questi propagatori della tendenza «jeans» non abbiano niente a che vedere col cristianesimo, quanto piuttosto con tutto ciò che gli è opposto, lo combatte, lo rovina…

Siamo i soli a non crederci…

Un’altra opera recente, «Histoire politique du pantalon»[11], ci invita anche a comprendere l’ampiezza della questione dell’abbigliamento. Tutto questo libro dimostra che tutto ciò che ieri ritenevamo decisamente «secondario», oggi, nella prospettiva del “gender”, si rivela come una questione di primaria importanza. In questo libro si possono leggere delle affermazioni lucide e illuminanti come questa: «L’abbigliamento, tra le diverse funzioni ben analizzate dallo psicanalista inglese John Carl Flügel, ha quella di permettere una lettura immediata dell’individuo»[12]. E quest’altra: «Il costume riflette l’ordine sociale e il creato». I nostri nemici ci credono! Ecco perché danno alla questione dell’abbigliamento la sua vera importanza, importanza che troppi cattolici rifiutano, relativizzano o minimizzano. I nostri avversari affermano senza la minima esitazione che «Il pantalone è l’indicatore del sesso/genere più importante per la storia occidentale degli ultimi due secoli»[13]. È per questo che, secondo il loro intendimento, «Il pantalone femminile si inscrive in una dinamica di rimessa in questione dei miti che strutturano i due generi»[14].

Ma chi sono allora i nostri modelli?

Occorre sapere che quando si tratta di «Una storia politica del pantalone», si rasenta la rivoluzione e la perversione sessuale in tutte le pagine. Se facciamo una breve rassegna delle personalità femminili che hanno lanciato l’uso del pantalone tra le donne, dal XIX secolo all’inizio del XX secolo, incontriamo Georges Sand (1804-1876), Rosa Bonheur (1822-1899), Jane Dieulafoy (1851-1916), Sarah Bernhardt (1844-1923), Louise Abbéma (1853-1927), Rachilde (1860-1953), «Marc» de Montifaud (1845-1912), Colette (1873-1954) e la marchesa de Belbeuf, Gyp, Madeleine Pelletier (1874-1939), Claude Cahun (1894-1954), Violette Morris (1893-1944), Maryse Choisy (1903-1979), Odette du Puigaudeau (1894-1991) e la sua compagna Marion Sénones. Queste donne sono tutte delle personalità notoriamente scandalose e contrassegnate da costumi depravati. Christine Bard, autrice del libro, commenta così riferendosi alle prime undici: «Esse sono uscite dalla famosa riserva che si addice al loro sesso, che si esprime normalmente con un abbigliamento discreto. Il pantalone ha contribuito alla conquista della loro autonomia. Donne libere nella loro vita privata, non potevano ignorare che il pantalone fosse anche un segno di ambiguità sessuale, al di là del fatto che i loro amori femminili fossero vissuti o repressi. Le donne di cui abbiamo parlato devono la loro realizzazione a ciò che Colette chiama ermafroditismo mentale. Molte di esse hanno conosciuto i due generi d’amore… il pantalone occasionale o abituale è il segno distintivo quasi ordinario di questi esseri che lo sono così poco»[15]. L’abbigliamento è dunque correlativo alla mentalità e alla moralità e non è possibile che questo tipo di persone possa servire da riferimento e da modello alla donna cattolica.

In quale ambiente ci troviamo?

Christine Bard, autrice non sospetta di tradizionalismo, fa l’inventario delle cause dell’evoluzione del costume femminile e quindi dell’adozione del pantalone da parte delle donne. Ecco alcuni concetti colti qua e là. La moda: «La moda è un potente fattore di legittimazione del cambio di abbigliamento e rende ridicole le velleità di interdizione»[16]. La creazione del prêt-a-porter ha avuto in questo campo un peso considerevole. Claire Mc Cardell (1905-1958), creatrice del prêt-à-porter americano, afferma: «Gli abiti sportivi hanno cambiato le nostre vedute, forse più di tutto il resto, e hanno fatto di noi delle donne indipendenti»[17]. Lo sport: « L’abbigliamento sportivo è l’alleato oggettivo del movimento di emancipazione delle donne»[18]. Il femminismo: La donna in pantaloni è «un simbolo politico della lotta per l’uguaglianza dei sessi»[19]. La guerra mondiale, «ha comportato un cedimento dei valori» e questo cedimento «è simboleggiato dall’avvento di una moda androgina, stile ragazzo»[20]. La cultura americana protestante ha diffuso «una versione soft del ragazzo, la girl, truccata, con le unghie laccate, i capelli ondulati, un po’ futile. È questo modello che ispira i nuovi giuochi di seduzione necessari all’erotizzazione della vita coniugale»[21].

Dopo la seconda guerra mondiale «Il fenomeno è visibile sul piano internazionale: nelle fabbriche, nei campi, nell’esercito, le donne sono in pantaloni…»[22]. Altro fattore: l’insicurezza e l’educazione mista indifferenziata: «Il pantalone obbligatorio per le adolescenti è un modo per evitare la sessualizzazione del corpo femminile in gonnella…»[23]. Il divismo: Katharine Hepburn e Audrey Hepburn, Marlene Dietrich, Greta Garbo, Juliette Gréco, Anne-Cazalis, Brigitte Bardot, etc. L’autrice non nasconde niente: nessuna di queste personalità è un modello di moralità. Le mondane come per esempio Simone de Beauvoir o Françoise Sagan, «dal fascino androgino, spesso fotografata in jeans, a piedi nudi, informale… la macchina, i blue-jeans, i compagni, il giuoco, la danza, il whisky e i dischi sono i suoi totem, lei personifica la gioventù francese del dopo guerra»[24].

Possa questo ritratto non essere quello di una certa parte della gioventù cattolica!

Yves Saint-Laurent (1936-2008), che ha adottato il pantalone femminile fin dall’inizio (1962) «ha meritato» qui una menzione speciale: «Fin dalla sua prima collezione, quando lavorava da Dior, aveva valorizzato una certa androginia…»[25]. Dopo 40 anni di carriera, a proposito delle donne concluderà: «Servire i loro corpi, i loro gesti, le loro attitudini, la loro vita. Ho voluto accompagnarle in questo grande movimento di liberazione che ha conosciuto il secolo scorso»[26].

Tradizionali nei principi e rivoluzionari nella pratica?

La grande rivoluzione dell’abbigliamento ha avuto luogo soprattutto negli anni ‘60, esattamente quelli del Concilio Vaticano II. A quell’epoca, il modello della donna «in casa, che alleva una prole numerosa, ancora presente nelle immagini pubblicitarie degli anni ’50, crolla bruscamente»[27]. Da notare che il primo atto del MLD (Movimento di Liberazione della Donna) nel 1970, è quello della donna in pantaloni[28]. Negli anni ’70 il pantalone femminile trova nuovamente nelle donne omosessuali le sue più grandi avvocate: Carole Nissoux, Paula Dumont, Elula Perrin, Suzette Triton, etc.[29]

Catherine Valabrègue, giornalista nota per il suo impegno a fianco del Plannig Familial, è colpita dalla «interscambiabilità degli abiti per ragazze e ragazzi» e «ritiene che la desessualizzazione dell’abbigliamento corrisponda senza dubbio alla preoccupazione di abolire la distanza tra i sessi… Per rivolgersi ai giovani – lei dice - talvolta si è tentati di inventarsi il terzo sesso…  Attraverso la moda, vediamo quindi delinearsi nelle giovani generazioni la preoccupazione di sfuggire alla costrizione dell’immagine tradizionale dell’uomo e della donna»[30].

Catherine Bard trae questa conclusione: «Il pantalone femminile è un’immagine forte di rottura con la Tradizione, in un contesto particolare che la rende possibile e auspicabile»[31]. Il jeans «è sicuramente associato alla liberazione sessuale e ad uno stile di vita bohème. Divenuto simbolo di rivolta, esso partecipa alla contro-cultura occidentale»[32]. In breve, il successo del pantalone femminile «consacra la fine dell’ordine antico iper-differenziato… l’avvicinamento dei sessi si effettua intorno a questo indumento…»[33].

Sfortunatamente, è il caso di notare che se oggi noi resistiamo al Concilio Vaticano II, non resistiamo più granché alla rivoluzione dell’abbigliamento, senza dubbio perché ne abbiamo una coscienza molto debole.

Ciò che io non avrei potuto scrivere…

Christine Bard, a conclusione del suo libro, ha scritto cose che noi non avremmo osato scrivere per paura di perdere di credibilità. Scritte da lei, però, queste righe mantengono tutto il loro peso. Ecco cosa dice: «Piazzare questa storia del pantalone sotto il segno dei tre valori repubblicani, Libertà, Uguaglianza, Fraternità, conferisce intelligibilità a ciò che a prima vista potrebbe apparire come aneddotico… Quale libertà? L’evoluzione dell’abbigliamento femminile in Occidente riflette l’avvento del liberalismo e dell’individualismo… Quale uguaglianza?… Si è visto il pantalone divenire un segno distintivo superiore alla controversia sull’uguaglianza dei sessi… Quale fraternità?… La tendenza androgina, l’unisex, il jeans, non sono alla ricerca di un’altra via che non dia più la priorità assoluta alla seduzione secondo i codici stabiliti dall’eterosessualità?… Il cambiamento di abbigliamento, immagine della fraternità? Il pantalone ha accompagnato le mutazioni di genere negli ultimi due secoli»[34].

Noi speriamo che quelli e quelle che sono forse poco inclini ad ascoltare il nostro punto di vista in questo dominio, accetteranno di accordare del credito alle affermazioni del sostenitore del campo opposto! Che gli uomini, mariti o padri di famiglia, comprendano che non è innocente, tutt’altro, lasciare che le loro figlie o spose scelgano il loro «genere» in materia di abbigliamento. Sì, non è indifferente che le nostre ragazze vestano come Françoise Sagan nel 1976, le nostre madri di famiglia come Brigitte Bardot nel 1955 e le nostre venerabili nonne come George Sand nel 1838. Ora, queste personalità immorali e rivoluzionarie, con il loro abbigliamento, sfidavano un mondo che era ancora cattolico. E le cose si sono aggravate continuamente. Basta che un parrocchiano o una parrocchiana assumano un’infelice iniziativa in questo dominio, che nelle settimane successive il cattivo esempio si propaga immancabilmente. Sfortunatamente, non si reagisce più: «A forza di vedere tutto, ci si abitua a tutto; a forza di abituarsi a tutto, si finisce con l’accettare tutto».

Il paradosso che ci deve “interpellare”

Ecco dunque, per finire, il paradosso che ci deve «interpellare» (come si dice oggi): noi ci scandalizziamo per la teoria del “gender”, e facciamo bene a farlo! Ma ci siamo rassegnati ad accettare (più o meno) la significativa evoluzione dell’abbigliamento che si manifestava proprio per accompagnarla e banalizzarla. I nostri nemici, campioni della Rivoluzione, conoscono molto meglio di noi la grande verità rivoluzionaria: la Rivoluzione è una prassi e si incomincia col fare praticare le idee prima ancora di imporle chiaramente.

Non è arrivato il tempo di reagire? «A forza di non vivere come si pensa, si finisce col pensare come si vive!» Se noi non demoliamo il movimento delle idee con la pratica, le idee finiranno necessariamente con l’imporsi di fatto nei nostri spiriti. Non bisogna dunque farsi adescare: per combattere veramente la teoria del “gender”, cominciamo col rinunciare alle sue pompe e alle sue opere. Qui è messa in luce la connessione reale e necessaria che esiste fra la fede e la morale, la necessità assoluta di una coerenza efficace fra i principi e la vita concreta. Grazie all’avvento del “gender” scopriamo che quella che si riteneva fosse una questione «secondaria», in effetti è l’applicazione imperiosa delle verità essenziali.

Il cristianesimo non potrà sussistere senza un’incarnazione quotidiana dei principi.

Si tratta di una guerra e bisogna combatterla

È per questo che i vostri pastori vi ricordano incessantemente le regole della modestia cristiana, sia nei luoghi di lavoro sia nella vita quotidiana. Essi contano sulla buona volontà di tutti. Che gli uomini diano l’esempio e quando si recano a Messa si facciano carico di essere ben vestiti almeno come quando si recano nei loro posti di lavoro. Che i padri e le madri di famiglia veglino sulla tenuta dei propri figli. Laddove non venga mantenuta la modestia cristiana, il cristianesimo svanisce, il linguaggio si abbassa, le relazioni diventano volgari, la purezza dell’amore sparisce, le vocazioni diventano rare. E se il pantalone femminile non può essere evitato, in ragione delle difficoltà del tempo (professione, attività straordinaria, sicurezza, ecc.), io mi permetto di chiedervi che esso oggi non appaia più nelle nostre case, nelle nostre scuole, nelle nostre cappelle, né nei nostri pellegrinaggi.

Vi benedico e vi assicuro le mie preghiere nel Cuore Addolorato e Immacolato di Maria.

Fonte: La Porte Latine

 


[1] - Deuteronomio, 22, 5.

[2] - I Timoteo, 2, 9.

[3] - I Corinzi, 11

[4] - IIa – IIae, q. 169, a. 2, ad 3.

[5] - Discorso ai membri dell’Unione Latina Alta moda, dell’8 novembre 1957.

[6] - Can. 1262, § 2.

[7] - Crétineau-Joly, L’Église Romaine et la Révolution (T. II, p. 50)

[8] - Gilles Lhote et Béatrice Nouveau, ediz. Michel Lafont, 2003

[9] - Op. cit., p. 148.

[10] - Op. cit., p. 10.

[11] - Christine Bard, Editions du Seuil, 2010

[12] - Op. cit. op., p. 8, nota 1.

[13] - Op. cit. op., p. 20.

[14] - Op. cit. op., p. 316.

[15] - Op. cit. op., p. 190.

[16] - Op. cit. op., p. 202.

[17] - Op. cit. op., p. 301.

[18] - Op. cit. op., p. 192.

[19] - Op. cit. op., p. 247.

[20] - Op. cit. op., p. 282.

[21] - Op. cit. op., p. 289.

[22] - Op. cit. op., p. 282.

[23] - Op. cit. op., pp. 272-273.

[24] - Op. cit. op., p. 302.

[25] - Op. cit. op., p. 309.

[26] - Op. cit. op., p. 311.

[27] - Op. cit. op., p. 317.

[28] - Op. cit. op., p. 323.

[29] - Op. cit. op., p. 326.

[30] - Op. cit. op., p. 318.

[31] - Op. cit. op., p. 319.

[32] - Op. cit. op., p. 320.

[33] - Op. cit. op., p. 352.

[34] - Op. cit. op., p. 377-379.