Don Davide Pagliarania cura di Marco Bongi

Presentiamo questo importante testo nel quale, con la massima disponibilità e naturalezza, il Superiore italiano della FSSPX affronta alcuni fra i temi più delicati ed attuali riguardanti i rapporti fra il mondo cattolico e la sua congregazione religiosa.


Don Davide, Lei si trova, dal 2006, alla guida di un distretto strategicamente importantissimo per la FSSPX, non tanto sotto l'aspetto numerico, quanto soprattutto per il fatto che l'Italia è la sede del papato. Ciò che dunque avviene in Italia assume, per forza di cose, una valenza tutta particolare nel mondo cattolico. Anche le vicende dei cosiddetti tradizionalisti italiani rischiano di riflettersi quindi, al di là della loro oggettiva consistenza, a livello internazionale. Lei è un sacerdote relativamente giovane e crediamo che i superiori della Fraternità, se le hanno conferito un incarico così delicato, ripongano nella sua persona una notevole fiducia. Vorremmo allora rivolgerle alcune domande allo scopo di comprendere meglio la posizione della congregazione fondata da Mons. Marcel Lefebvre. Non mancano infatti critiche provenienti da vari ambienti. Ci aiuti, nei limiti del possibile, a dissiparle.

D. - L'annuncio, da parte di Benedetto XVI, della convocazione di un nuovo incontro interreligioso ad Assisi ha suscitato notevoli reazioni nel mondo cattolico tradizionalista. Mentre alcuni hanno evidenziato negativamente le dure parole, pronunciate su questo argomento da Mons. Bernard Fellay nell'omelia del 9 gennaio, altri osservano invece un deprecabile, a loro parere, ammorbidimento dei toni rispetto alle aspre parole pronunciate da Mons. Lefebvre nel 1986. Qual è la vera posizione della FSSPX? Quali sono, se ci sono, i motivi che vi inducono ad una maggiore cautela nei toni?

La reiterazione della giornata interreligiosa di Assisi unitamente alla rievocazione di ciò che accadde nel 1986 rappresenta purtroppo la conferma di tutto un percorso ecumenico che ha seminato universalmente l’idea che tutti i culti siano validi e che possano contribuire ad ottenere il bene della pace. E’ questa la dimensione realistica, concreta, mediatica e “pastorale” di Assisi, malgrado i distinguo, le precisazioni e le “precauzioni” che forse non mancheranno. Penso che la Fraternità abbia il dovere di ripetere ciò che ha detto 25 anni fa e che non ha mai smesso di ribadire: "nullam partem". Se non lo facesse, la Fraternità non solo tradirebbe sé stessa ma innanzitutto la Chiesa e lo stesso Papa. Può sembrare paradossale ma il servizio più prezioso che si possa offrire oggi al Santo Padre è proprio quello di dirgli: "non possumus", come San Paolo lo disse a San Pietro ad Antiochia. In realtà è quello che vorrebbero dirgli in tanti, mossi da un amore sincero per la Chiesa, ma che ancora non osano farlo in prima persona: la Fraternità, si vuole far portavoce anche di loro.

Quanto ai toni, se qualcosa è cambiato, ciò non riguarda le questioni di fondo, ma lo scenario concreto; ora la Fraternità discute ufficialmente con i rappresentanti della curia romana. Questo non significa un regresso rispetto alle posizioni precedenti ma piuttosto un progresso nella loro avanzata. Le obiezioni dottrinali alla base delle scelte della Fraternità sono finalmente sul tavolo del Papa in nome della Tradizione e del Magistero perenni. E’ chiaro che i toni attuali in qualche modo tengono conto di questa evoluzione. Questo non significa - lo ripeto - un annacquamento dei contenuti ma al contrario la loro avanzata. E’ incoraggiante per noi il fatto che la Fraternità sia giunta a questo punto: è una prima conferma che la linea di Mons. Lefebvre era quella da seguire. Contrariamente a quanto alcuni pensano, nell’ottica della Fraternità, l’obiettivo delle discussioni non è tanto quello di trovare una collocazione canonica per sé stessa ma, ancora una volta, quello di rendere un servizio alla Chiesa e alle anime che attendono il trionfo della Verità.

Questo non significa che la Fraternità salverà la Chiesa - il che appartiene solo a Dio - ma che la Fraternità intende testimoniare la Verità "in medio Ecclesiae", e per il bene di tutta la Chiesa. Per tornare ad Assisi, è chiaro che il problema dell’ecumenismo, del dialogo interreligioso, dei loro addentellati e delle loro conseguenze, occupa un posto di primissimo piano nella scaletta dei temi che la Fraternità discute con la commissione voluta dal Papa.

D. - Alcuni esponenti della Fraternità, talora anche tra coloro che ricoprono incarichi di responsabilità, non esitano ad esprimersi in modo estremamente critico nei confronti della teologia di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Questo atteggiamento ha suscitato dure reazioni da parte di alcuni commentatori: si è sostenuto che la FSSPX, mentre da una parte partecipa ai colloqui teologici a Roma, dall'altra attacca duramente il S. Padre. Lei cosa ne pensa?

Penso che la questione vada affrontata restando ai principi di fondo, senza entrare nell’analisi dei singoli casi o delle singole obiezioni. Innanzitutto i membri della Fraternità non attaccano il Papa ma la sua teologia. E’ una distinzione elementare e facile da compiere, purtroppo non sempre evidenziata dai commentatori. Non vogliamo pensare che questa omissione possa essere strumentale. Se affrontata con la giusta competenza e con i toni dovuti, penso che l’analisi dei grandi principi teologici che hanno guidato il percorso di Joseph Ratzinger sin dagli anni del Concilio sia un tema di grande interesse; egli infatti ha partecipato al Concilio in qualità di teologo privato del Card. Frings, assieme al ben noto Karl Rhaner. E’ ben vero che negli anni successivi Ratzinger si staccò progressivamente da quest’ultimo ed ancor più dall’amico Hans Kung, al quale doveva il suo ingresso all’università di Tubinga. E’ anche vero però che egli considera piuttosto che questi teologi abbiano cambiato idea, non lui; anche da Papa, è ritornato sulla sua famosa tesi di dottorato all’epoca bocciata dal prof. Schmaus. Insomma il suo percorso teologico è interessante e può contribuire a capire meglio certe scelte che caratterizzano il suo pontificato.

Peraltro da vero intellettuale è lui stesso ad aver auspicato, in alcune occasioni, che si discuta sulle sue tesi teologiche, anche muovendo obiezioni. Penso che l’analisi dell’evoluzione del suo pensiero sia un tema di grande interesse, stimolato dal fatto che sempre di più egli privilegi un tipo di comunicazione dove riemerge spesso l’anima dell’ex professore che vuole provocare un dibattito piuttosto che insegnare in modo cattedratico e magisteriale. Ad esempio, i suoi recenti libri – a prescindere dai contenuti specifici – rappresentano in sé stessi un modo nuovo e atipico di porsi e di comunicare come Papa. A questo proposito dobbiamo cogliere i segni dei tempi: a partire dal Concilio la teologia ha – in una certa misura – sostituito il Magistero: è ben noto il ruolo dei teologi durante il Concilio e nel postconcilio. Questa influenza è stata tale che gli stessi Papi del postconcilio tendono talora ad esprimersi come “teologi” più che come “maestri” della dottrina: ora il teologo è colui che indaga, discute e cerca nuovi orizzonti, a differenza del maestro che si limita ad insegnare ciò di cui è depositario. Questo nuovo atteggiamento, che già Romano Amerio definiva “dislocazione dell’attività magisteriale” è un dato di fatto e può essere fonte di confusione, a prescindere dagli stessi contenuti.

Inoltre mi sembra che il Papa stesso abbia a cuore un ripensamento teologico su quanto è accaduto nel postconcilio: inevitabilmente questo coinvolge, più o meno direttamente, tutti i grandi nomi di questo periodo. Quanto al fatto che la Fraternità continui ad essere “critica” sui punti su cui lo è sempre stata malgrado i colloqui teologici in corso, penso semplicemente che questa mancanza di doppiezza le faccia onore: una discussione onesta e leale non sarebbe più tale se fosse costretta a sacrificare qualcosa alla dea diplomazia. Alla fine dei conti la schiettezza è un motivo di credibilità per i nostri interlocutori, per il pubblico e per lo stesso Papa.

D. - Il recente passaggio alla FSSPX di un sacerdote diocesano rappresenta senza dubbio un fatto estremamente significativo. Vi sono tuttavia alcuni "ultras" che ricordano come, di fronte a casi simili, Mons. Lefebvre, abbia alcune volte proceduto alla riordinazione precauzionale dei sacerdoti ordinati con il Novus Ordo Missae. E' cambiato qualcosa oggi, sotto questo aspetto, nella prassi della Fraternità?

Anche se non ha mai parlato pubblicamente di questa delicatissima questione, posso confermare che Mons. Lefebvre ha proceduto, in alcuni casi, a tali riordinazioni "sub conditione". Tuttavia su questo problema la Fraternità non ha mai proceduto in modo sistematico, bensì valutando con la massima prudenza caso per caso e procedendo unicamente laddove il dubbio era fondato. Tale dubbio è stato provocato da una serie di elementi oggettivi che hanno indotto ad ipotizzare – in alcuni casi – un reale difetto di intenzione da parte del Vescovo. In questi casi la riordinazione "sub conditione" si è rivelata necessaria anche per tranquillizzare la coscienza del sacerdote, assalito da gravissimi dubbi.

Penso si possa instaurare un parallelo – ovviamente con i dovuti distinguo – tra alcune ordinazioni sacerdotali e certe Messe di cui siamo stati spettatori nel postconcilio: ritengo che ad ogni uomo di buona volontà possa venire un dubbio se vede un sacerdote dire messa sdraiato su un prato o consacrare la birra oppure il latte. Oppure se lascia consacrare il pane unicamente all’assemblea perché popolo sacerdotale. Esperienze di questo tipo o ad esse analoghe possono provocare, unitamente al dubbio, un vero e proprio trauma e un caso di coscienza: ad esso bisogna fornire, in qualche modo, una risposta per dovere di carità.

D. - In Italia, a fronte del relativamente piccolo numero di fedeli, la FSSPX gode di una certa simpatia in alcuni ambienti culturali e su taluni organi di informazione. Come interpreta questo fatto?

Gli organi di informazione e gli ambienti culturali – per lo meno in linea di principio – sono chiamati a veicolare dei contenuti. In questo senso penso che la Fraternità possa essere oggetto di un interesse particolare in quanto privilegia incondizionatamente una identità ed una battaglia di carattere eminentemente dottrinale. Questa scelta, che vuole essere una risposta proporzionata ed adeguata alla radice della crisi attuale, ha garantito alla Fraternità la possibilità di esprimersi liberamente, senza essere condizionata da altri interessi, magari anche legittimi, ma di altra natura: Verità e Libertà sono due termini strettamente uniti nella prospettiva evangelica. A lungo termine questa libertà di ricordare i principi tradizionali della dottrina cattolica suscita interesse, a condizione di non uniformarsi ai discorsi pallidi, tiepidi, politicamente corretti e spesso vuoti. A questo proposito mi sembra giusto sottolineare che la Fraternità non ha maturato una sua specifica identità dottrinale: non esiste una verità lefebvriana o una Tradizione interpretata in chiave lefebvriana. Esiste la Chiesa, con la Sua Tradizione bimillenaria e intramontabile: è la sola cosa che ci interessa perché sappiamo che se anche il mondo crollasse, questa non verrà mai meno: "Verbum Domini manet in aeternum". La Storia della Chiesa ci insegna che questa Tradizione trionfa in modo proporzionale agli ostacoli che incontra.

D. - Il fenomeno INTERNET, visto originariamente con sospetto nel mondo cattolico, si sta rivelando una risorsa importantissima per la Tradizione. Si possono infatti pubblicare articoli ed interventi senza necessariamente dover disporre di ingenti capitali. Come giudica questo mezzo di comunicazione? Quali sono i rischi e gli aspetti positivi?

Penso che internet sia un’arma a doppio taglio. Da una parte è ben vero che permette una pubblicazione rapida e facile di certi testi o commenti. Tuttavia gli inconvenienti non sono pochi. Innanzitutto il pubblico di internet è un pubblico particolare, oserei dire selezionato, certamente il più informato ma non necessariamente il più preparato: c’è tutta una sfera di persone che non accedono quotidianamente ad internet e che non devono essere dimenticate né escluse dai grandi dibattiti. Soprattutto penso che internet rischi in qualche modo di banalizzare certi confronti a carattere dottrinale. Davanti ai grandi temi che ci riguardano è necessaria una certa ponderazione e soprattutto una certa distanza dai fatti, dai testi o dai problemi che si vogliono commentare. Internet accorcia questa distanza e stimola moltissimo il desiderio di coniugare rapidità di informazione e di commento in tempo reale, a scapito – talora – della necessaria prudenza e ponderazione che hanno sempre caratterizzato il modo con cui la Chiesa ha insegnato ad affrontare le grandi questioni. Chi è informato per primo o chi reagisce per primo non è necessariamente colui che ha sempre ragione.

D. - Da un po’ di tempo sembra in procinto di crollare il tabù del Concilio Vaticano II. I libri di Roberto de Mattei e di Mons. Brunero Gherardini hanno dimostrato che è possibile discutere anche su punti fino ad oggi considerati intoccabili. Come vive questo fenomeno il superiore del Distretto italiano della FSSPX?

Prima o poi doveva succedere; il fenomeno è evidente e soprattutto è irreversibile per un motivo molto semplice: la Tradizione della Chiesa, in un modo o nell’altro, deve trionfare. Si tratta di una necessità assoluta che trascende la contingenza storica. La Provvidenza si serve di tale pubblicazione o di tale evento o di tale congiuntura per giungere a questo fine necessario e ineludibile: il trionfo della Verità. Tuttavia ciò che più fa riflettere sono gli ostacoli che questa messa in discussione sta incontrando. Accanto a incoraggianti reazioni, ci si rende conto che la Cristianità è come anestetizzata a 45 anni di distanza dalla chiusura del Concilio. Pur constatando questo lento movimento di ripensamento sul Concilio, penso che ci vorrà molto più tempo del previsto per coinvolgere un ampio settore della Chiesa, a meno che la Provvidenza non utilizzi qualche mezzo straordinario. La speranza non deve confondersi con il trionfalismo né deve cedere il posto ad un ottimismo sproporzionato.

D. - I progressisti giudicano ormai superato il Concilio Vaticano II ed aspettano Il Concilio Vaticano III. I tradizionalisti discutono l'autorità dottrinale dei documenti conciliari. Rimane solo uno sparuto gruppo di cosiddetti conservatori che continua a difendere, contro ogni evidenza, l'assoluta indefettibilità di ogni virgola contenuta in tali testi. Qual'é, in tal senso, la posizione della Fraternità?

E’ quella dei cosiddetti “tradizionalisti”. E’ evidente che il Concilio rappresenta un modo di “porsi”, di “relazionarsi” e di “insegnare” assolutamente nuovo e del tutto unico nella Storia della Chiesa: ha voluto autocertificarsi come “pastorale” quasi a differenziarsi da tutti i concili precedenti, sottolineando una sua originalità propria contestualmente alla volontà di non definire e di non condannare. Però né il Concilio né il postconcilio hanno mai dato spiegazioni chiarificatrici né definizioni di questa specificità anomala del Concilio stesso. Proprio per questo coesiste, in campo liberale, chi lo dogmatizza e chi lo utilizza come punto di partenza per il Vaticano III o IV e per una applicazione evolutiva senza termine finale. Paradossalmente sono i tradizionalisti a non tradire il Concilio, valutandolo per quello che è, ridandogli la sua vera portata, considerando spassionatamente a quali risultati catastrofici sia approdato, liberi da ogni ideologia e da ogni pregiudizio politicamente corretto.

D. - La decisione di Papa Benedetto XVI di beatificare il suo predecessore non pare essere stata molto gradita negli ambienti tradizionalisti. Fermo restando che nessuno ha il potere di giudicare le intenzioni umane e che anche un beato può aver compiuto scelte sbagliate nella sua vita, cosa pensa lei di tale decisione?

Non mi sembra il caso di discutere e di esprimermi sulle virtù personali di Giovanni Paolo II. Penso tuttavia che la decisione affrettata di beatificare Giovanni Paolo II, contro le regole, la prassi e la prudenza abituali della Chiesa, siano indice di una chiara volontà di “canonizzare” in fretta ciò che tale pontefice rappresenta sul piano storico ed ecclesiale: l’applicazione del Concilio. Ora, dal momento che Benedetto XVI invita all’autocritica sull’interpretazione del Concilio, trovo difficilmente armonizzabile la volontà di aprire un serio dibattito su ciò che il postconcilio rappresenta e ha prodotto con la beatificazione immediata di colui che ne è la grande icona. C’è qualcosa che sfugge e penso che la cosiddetta ermeneutica della continuità rischia di perdere ulteriormente credibilità a causa di questa scelta affrettata. Forse questa decisione rappresenta – ripeto, nella sua dimensione politica più che personale – un tentativo disperato di santificare un periodo storico in cui la Chiesa, purtroppo, non ha fatto altro che collassare lentamente. In questa prospettiva la fretta di questa beatificazione sarebbe proporzionale alla sensazione di malessere che la Chiesa sta vivendo.

D. - Sappiamo che la FSSPX organizza periodicamente incontri fra sacerdoti diocesani. Cosa vi sentite dire in tali occasioni? Pensa che nel prossimo futuro ci possano essere nuove adesioni alla Fraternità?

Esiste una categoria di sacerdoti che ha bisogno di essere in qualche modo incoraggiata dalla Fraternità: è quello che dicono e che chiedono. Si tratta in generale di sacerdoti stimolati dal Motu proprio a scoprire la Messa Tridentina e, attraverso di essa, le ricchezze della Tradizione assieme ad un ideale sacerdotale autentico. Di conseguenza nasce in questi sacerdoti il desiderio spontaneo di appropriarsi integralmente di queste ricchezze e di beneficiarne liberamente: a questo punto incominciano i problemi. A quanto essi riferiscono, si sentono spesso umiliati dai confratelli, talora dal loro Vescovo e soprattutto lamentano il fatto che non esista una autorità realmente capace di sostenerli, di proteggerli e di incoraggiarli nelle loro scelte e nei loro bisogni. La Fraternità sente il dovere di incoraggiarli, compatibilmente con la limitatezza dei mezzi di cui dispone e delle iniziative che può prendere. A questo proposito sono stato molto colpito dal fatto che generalmente il sacerdote di oggi lamenta un grave stato di solitudine morale e direi quasi di abbandono: si ha l’impressione che i grandi piani delle diocesi si occupino tantissimo del laicato, dell’applicazione di grandi teorie ecclesiologiche, trascurando il bene particolare e i mezzi di santificazione dei singoli sacerdoti. La Fraternità considera i sacerdoti di oggi più come delle vittime che come dei responsabili della gravissima crisi che, coinvolgendo la Chiesa, coinvolge in primo piano il sacerdote stesso.

D. - Appaiono, al contrario, quasi sempre più problematici i rapporti fra la FSSPX e le altre congregazioni tradizionaliste cosiddette "Ecclesia Dei". Come interpreta questa freddezza?

La domanda è delicata in quanto riguarda direttamente confratelli di altri istituti: cercherò nei limiti del possibile di rispondere in termini precisi ma allo stesso tempo impersonali. Onestamente non mi sembra che ci sia un aumento di freddezza nei rapporti con i gruppi “Ecclesia Dei” come tali, ma la diversa relazione che essi possono avere con la Fraternità è determinata da ragioni oggettive. Innanzitutto questi gruppi sono alquanto diversificati tra loro per indole e finalità; penso che in alcuni di questi gruppi, o perlomeno in alcuni membri, ci sia maggior sensibilità all’elemento dottrinale che caratterizza la battaglia della Fraternità: in questo caso essi osservano con interesse le discussioni che abbiamo intrapreso con Roma e vi ravvisano forse la possibilità di un qualche beneficio per la Chiesa.

Purtroppo però i gruppi "Ecclesia Dei” sono nati spesso – quantunque non esclusivamente – da una divergenza grave con la linea dottrinale o pastorale della Fraternità. Penso che questa origine “negativa”, se mi è concesso l’utilizzo di questo termine, al di là delle inevitabili ripercussioni personali che non ci interessano, possa mortificare nel corso degli anni la tensione verso il raggiungimento dell’obiettivo iniziale: la denuncia degli errori del Concilio e questo non tanto per il bene di un gruppo particolare ma per il bene di tutta la Chiesa. Penso che l’ideale per questi gruppi sarebbe quello di riuscire a definirsi realmente non più in relazione alla Fraternità bensì in relazione ad una finalità ecclesiale più “positiva” che possa corrispondere nei limiti del possibile ad una sana ed integrale restaurazione della Chiesa. Sul piano personale ognuno può avere qualcosa che ha offeso o da cui è stato offeso, questo dispiace ma come detto non ci riguarda direttamente nelle presenti riflessioni e, probabilmente, non è destinato a cambiare il corso della Storia della Chiesa.

D. - Sappiamo benissimo che i colloqui teologici fra la Fraternità e le autorità romane sono coperti giustamente da un rigoroso segreto. Ci può però almeno descrivere sommariamente il clima in cui si svolgono tali incontri. Cosa le riferiscono, in tal senso, i confratelli che fanno parte della delegazione ufficiale?

I confratelli membri della commissione sono soddisfatti del clima cordiale con cui sono accolti e che permette loro di esprimersi liberamente, in maniera complessiva ed esauriente. Per loro si tratta innanzitutto di rendere una testimonianza, lasciando alla Provvidenza gestire il futuro della vicenda.

D. - Tra le obiezioni che più spesso vi vengono rivolte vi è quella incontrovertibile di non avere uno statuto canonico ufficiale. Come vive la Fraternità il disagio di non avere uno statuto giuridico regolare ed approvato dalla Chiesa?

Penso che su questo problema non bisogna sbagliarsi di prospettiva: non ha alcun senso valutare la legittimità dell’esistenza e dell’apostolato della Fraternità se non in relazione alla crisi della Chiesa. Trovo un po’ “cartesiano” l’atteggiamento di chi riconosce l’esistenza di una grave crisi nella Chiesa senza relazionarla in nessun modo all’esistenza della Fraternità e giudicando quest’ultima come se la crisi non esistesse. Se la Chiesa vivesse la sua primavera come il Concilio aveva promesso, primavera di purezza di dottrina, di santità, di vocazioni, di fioritura di vita religiosa, di ottima formazione nei seminari, la Fraternità non potrebbe giustificare in nessun modo la sua azione attuale. Se la Chiesa vivesse un periodo normale della sua storia, con gli abituali alti e bassi, nel quale però tutti i mezzi di santificazione (sacramenti cattolici, sana dottrina, sicuri insegnamenti morali, buona formazione per i sacerdoti, ecc…) fossero ordinariamente garantiti in tutte le parrocchie e le cattedre del mondo, la Fraternità ugualmente non potrebbe giustificare ciò che fa.

Se invece la Chiesa sta vivendo un periodo di crisi senza precedenti, in cui le fondamenta stesse del Cattolicesimo sono attaccate dall’interno della Chiesa, se veramente il fumo di Satana è penetrato nel Tempio di Dio e se la Chiesa fa veramente acqua da tutte le parti, il servizio più grande che si possa offrirle è quello di preservare la sua Santa Tradizione per la sua stessa rigenerazione, mettendola sin d’ora a disposizione delle anime. Certo si può discutere in che termini la Chiesa faccia acqua da tutte le parti e in che termini il fumo di Satana sia entrato nel tempio di Dio: però mentre si discute non bisogna dimenticare le anime che respirano questo fumo e che hanno l’acqua alla gola: "suprema lex salus animarum", come recita lo stesso Codice di Diritto Canonico.

Questa espressione, con cui si conclude il Codice, è la sintesi di tutto il Diritto Canonico e dello spirito della Chiesa che lo anima. Questo vuole essere pure lo spirito della Fraternità, che agisce fuori dagli schemi canonici abituali unicamente in virtù dello stato di necessità (contemplato paradossalmente dallo stesso Codice) che si è creato nella Chiesa, anch’esso fuori dagli schemi storici abituali. In questa prospettiva l’apostolato della Fraternità non solo è legittimo – quantunque resti eccezionale – ma doveroso, e questo non in virtù di un mandato canonico che non ha ma in virtù di un dovere di carità verso le anime: la suprema legge è la salvezza delle anime.

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