di don Luigi Moncalero

Mons. Lefebvre ha firmato o no i documenti del Concilio Vaticano II?  È la domanda che Antonio Socci mi ha rivolto in seguito al mio articolo di qualche giorno fa (vedi QUI). Rispondo volentieri, sottolineando che non si tratta di sterile polemica ma di discussione franca e aperta: Concilio o postconcilio: dove sta il problema?

Caro Socci,

Prima di tutto, non rovesci la frittata: è lei che ha sparato il primo colpo dalla pagine di Libero scrivendo: «La via del baratro fu imboccata non con il Concilio [neretto nostro] - come credono certi lefebvriani - ma alla sua fine, esattamente 50 anni fa, con il post concilio»: come lefebvriano (si potrebbe discutere sull’etichetta, ma passiamo oltre) mi sono sentito tirato in ballo.

Il mio scritto voleva solo farle notare l’illogicità della sua affermazione. Non ci sono riuscito, evidentemente, se lei ha potuto scrivere come risposta sulla sua pagina Facebook: «Viva il Concilio! E abbasso i lefebvriani!» (v. QUI).

Niente niente che adesso la colpa di tutti i mali nella Chiesa è di mons. Lefebvre?

Passiamo a quella che è a suo avviso la domanda chiave: ha firmato o non ha firmato mons. Lefebvre i documenti del Concilio?

L’occasione è buona per riparlarne. Chi ha studiato il problema dice che bisogna distinguere tra la votazione dei documenti (pro o contro) e la promulgazione degli stessi. Cito il prof. Paolo Pasqualucci, che intervenendo su di un blog ha ben riassunto la questione: «Mons. Lefebvre votò contro la Dichiarazione sulla libertà religiosa [Dignitatis humanae] e la costituzione pastorale Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. È provato che votò contro questi due documenti del Concilio». Quanto alla promulgazione, invece, precisa che «la firma apposta su richiesta del Papa a tutti i testi approvati dal Concilio, attestava, nell’intenzione del Papa, la promulgazione dei documenti stessi nello spirito della nuova collegialità professata dal Concilio stesso». Si deduce che essa era una sorta di convalida notarile, fatta da tutti i vescovi riuniti. Si aggiunga che questa firma poteva essere fatta per delega a nome di un vescovo assente, cosa impossibile per la votazione pro o contro un documento

Mons. Tissier de Mallerais, nel suo libro Mons. Marcel Lefebvre - Una vita, (ed. Tabula Fati, un libro di storia, non un’agiografia) tratta di questo alla conclusione del capitolo che ha per titolo Di fronte alla tempesta conciliare, in cui documenta l’atteggiamento di mons. Lefebvre al Concilio e tutta la battaglia degli altri Padri del Coetus per limitare l’influenza di quel’“alleanza del Reno” che lavorava per inquinare le acque del Tevere. Ecco il passaggio relativo al punto in questione:

«[7 dicembre 1965] Il Papa approvò i quattro documenti [Ad Gentes, Presbyterorum ordinis, Gaudium et spes; Dignitatis humanae] e li promulgò (neretto mio) oralmente fra grandi applausi. Poi fra i Padri circolarono grandi fogli recanti ciascuno sul frontespizio i nomi dei quattro documenti promulgati, sui quali i Padri furono invitati ad apporvi la loro firme precedute dalla parola “Ego", io, che attestava l'adesione di ciascuno all'atto di promulgazione compiuto dal Papa, capo del collegio conciliare» (pag. 358). [si veda la foto di questo articolo. Cliccando con il tasto destro la si può ingrandire. Sotto la firma di mons. Lefebvre ai quattro documenti conciliari testé promulgati, c'è quella fatta per procura a nome di un suo Confratello nell'Episcopato, mons. Grimault].

Interessante è anche leggere il libro dal titolo Accuso il Concilio che raccoglie gli interventi del Presule francese durante l’assise conciliare. Si veda anche Roberto De Mattei, Il concilio Vaticano II-Una storia mai scritta, Lindau, 2010, p. 515.

Tutto questo per dire: è più che evidente che sin dalle prime battute del Concilio egli si era trovato a doverne combattere lo spirito che via via si delineava, andando oltre quel timore reverenziale verso il Papa che in vescovi nati e formati ben prima del ’68 doveva costituire come una seconda natura (mica come adesso, che ci si permette di dare del tu alla maestra). Il fatto che col passare degli anni le parole e l’atteggiamento di mons. Lefebvre si sia fatto sempre più duro e intransigente è perché gli errori introdotti dai testi conciliari si facevano sempre più manifesti.

Terzo: l’accusa rivolta alla Fraternità San Pio X di tacere sui misfatti di Papa Francesco per «legittimare quello che sta facendo l’attuale vescovo di Roma» la rispediamo al mittente, con preghiera di avere la pazienza di andare a fare qualche lettura istruttiva sulla Rivista ufficiale La Tradizione Cattolica, sul nostro sito e sulle altre pubblicazioni. A titolo di esempio non esaustivo, ecco qualche esempio reperibile anche in rete:

  • Qualche nota sull’attualità ecclesiastica, “La Tradizione Cattolica” anno XXV, 2014, n° 1, 90, pp. 39-40;
  • Papa Francesco e Pascendi: come applicare un’enciclica all’inverso, ibidem anno XXV, 2014, n° 4, 93, pp.11-19;
  • Note sull’attualità, ibidem anno XXVI, 2015, n°1, 94, pp.8-13.
  • Papa Francesco: dalla Monarchia pontificia allo spettro del Papato, in Atti del XXI Convegno di Studi Cattolici, Rimini 2013 (in formato audio sul sito gloria.tv).

 

Penso che possa bastare.

Quarto: proviamo a lasciar da parte le persone e attenerci ai fatti? O meglio, …alle favole che, come è ben noto, sono più vere della realtà? Mi permetta di raccontarle una favola, o se preferisce un apologo. Tanto per non finir piangendo.

 

C’era una volta…

…un ingegnere che aveva progettato un tronco di ferrovia lungo 5 chilometri. Aveva calcolato tutto molto bene: da X a Y, 5 chilometri esatti di binari, 5 pezzi da un chilometro ciascuno. La ditta appaltatrice dei lavori non doveva che eseguire alla perfezione il disegno, e tutto sarebbe andato per il meglio. Così fu fatto. Il progetto fu eseguito con molta cura, i piani rispettati in modo maniacale.

Sennonché il valentuomo aveva commesso un piccolo errore di calcolo. Piccolo piccolo: i due binari non erano proprio paralleli. Un’inezia, certo. Per i primi due chilometri praticamente non ci si accorgeva del divario, se non misurando accuratamente. Ma via via questo aumentava. Arrivati all’ultimo tratto, all’ultimo chilometro di tronco ferroviario, l’errore era talmente palese che anche Nando, il manovale che sapeva sì e no leggere i numeri grossi sul suo metro da muratore, si accorse che qualcosa non andava: tra i due binari vi era uno scarto esagerato. «Di qui il treno non passa!», ripeteva scuotendo il testone. E nessuno poteva dargli torto. Ma i disegni sono disegni: si eseguono e basta.

Alla fine, come aveva previsto Nando, il treno non poteva passare: il divario tra i due binari era enorme!

Solo l’ingegnere si ostinava a ripetere: «È colpa dell’ultimo chilometro! Tolto quello, tutto andrà a posto!».

L’errore non era evidentemente in quegli ultimi metri di binario, ma all’inizio. L’errore era nel progetto. Però ammettere questo voleva dire accettare il fatto di aver sbagliato qualcosa. Voleva dire ricominciare da capo. Ma proprio da capo!

«Me lo diceva sempre mio nonno - sentenziava il buon Nando davanti al suo quartino, al Bar dello Sport - le due parole più difficili da dire per un uomo sono: “ho sbagliato”. Va là, gliele farei cavare a lui le rotaie…», disse accennando all’ingegnere che, progetto alla mano, continuava a prendere a calci quegli ultimi metri di binario…

 

Sia lodato Gesù Cristo.

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