Gesù scaccia i mercanti dal tempiodi don Gabriele D'Avino

L’ultima delle undici passioni analizzate da San Tommaso è l’Ira. Contrariamente alle altre, non ha una passione correlativa, ma si trova per così dire da sola, e ciò perché essa comporta, in sé, il duplice aspetto di avere come oggetto il male e il bene, ma sotto rapporti diversi; vediamo come.

Una corretta quanto precisa definizione di tale passione è data dal P. Ramirez: appetitus vindictae cum corporis incandescentia[1], cioè appetito di vendetta con riscaldamento del corpo. Prima di analizzare l’elemento materiale (il calore corporeo) vediamo che l’elemento formale (la vendetta) consiste nell’applicare il bene al male, “vendicando” appunto il male.

La parola “vendetta” infatti non deve portarci fuori strada, quasi che sia unicamente un desiderio feroce di fare del male; infatti, nel suo senso originario, la vendetta consiste semplicemente nel riparare un male causato, e cioè ristabilire il bene della giustizia. Ecco il duplice aspetto (bene e male) che spiega l’unicità di questa passione. In linguaggio canonico si distinguono ad esempio le pene “medicinali” o “censure”, che hanno come scopo l’emendamento del colpevole (es. la scomunica)[2], e quelle “vendicative”, che servono unicamente a ristabilire l’ordine della giustizia leso da un delitto (es. la privazione della sepoltura ecclesiastica)[3].

Questa passione fa parte dell’appetito irascibile (che infatti da essa prende il nome) e non di quello concupiscibile, perché, come dicevamo per le precedenti passioni, non riguarda un bene o un male considerato in sé ma bensì nella loro difficoltà: il male, ad essere tolto; il bene, a trionfare. Naturalmente possiamo distinguere alcune gradazioni nell’Ira: esiste quella meramente passionale, comune anche agli animali bruti, e che procede direttamente all’azione senza riflessione, caratterizzandosi in particolare nel modo: l’incandescenza corporale, appunto.

Esiste poi quella meramente spirituale detta anche volontaria che procede maggiormente dalla ragione e solo accidentalmente si accompagna alla sensibilità; infine quella mista, più propria all’uomo ed è quella che si definisce Ira in senso stretto: procede dall’appetito sensibile, certo, ma con una certa partecipazione della ragione.

A questo punto si inserisce il discorso della bontà di tale passione: siamo troppo spesso abituati, dalla considerazione dell’elenco dei peccati capitali, a considerare l’ira come un peccato, sempre e comunque; troppo facile è accusarsi in confessionale di aver peccato d’ira senza specificarne il movente, il modo, l’intensità. Non necessariamente allora avremo peccato… In caso contrario, dovremmo affermare che Nostro Signore peccò d’ira quando scacciò i mercanti dal tempio rovesciando i tavoli dei cambiavalute, secondo il racconto del Vangelo: ma Nostro Signore non poteva peccare, né essere imperfetto in alcunché.

In realtà, a ben guardare, l’ira è per noi soltanto un modo per ristabilire un ordine leso a qualsiasi livello, e l’aspetto materiale (l’accensione del volto, l’incandescenza del corpo) è un modo fornitoci dalla natura perché quest’ira sia efficace e raggiunga il suo scopo. Di certo possiamo pensare che anche Nostro Signore si fece rosso in volto in questa celebre scena coi mercanti: ciò non toglie che il suo scatto d’ira fu buono, per tre ragioni: l’oggetto della sua rabbia fu buono e legittimo (la difesa della casa di Dio), il modo fu conforme alla ragione (la violenza non fu sproporzionata), l’origine non fu incontrollata e spontanea ma procedette e fu voluta dalla ragione.

Parimenti, i nostri moti di ira non saranno peccaminosi ma anzi saranno atti di virtù quando: saranno rivolti verso un fine giusto e lecito; saranno contenuti entro limiti proporzionati (senza violenze eccessive, senza ingiurie); cesseranno cessato l’oggetto, e saranno decisi da noi e non incontrollati. Un esempio valga per tutti: il papà che vuole arrabbiarsi con il figlio che compie un’azione cattiva e che decide di mettersi in collera e di dargli la giusta punizione, magari sgridandolo aspramente o dandogli un ceffone; in alcuni casi, quando i genitori rifiutano di compiere atti del genere, è per pusillanimità e non per dolcezza, e faranno più il male che il bene dei loro figli.

Una parola infine sull’effetto materiale dell’Ira. Secondo il P. Ramirez, quanto maggiore è la tensione del soggetto verso il bene cercato, tanto maggiore è il calore del corpo che se ne sprigiona. Infatti, tale calore, conseguente all’agitazione delle membra, si riscontra nelle passioni “positive”: Amore, Desiderio, Gioia, Speranza, Audacia, Ira; tuttavia, nell’ordine, è maggiore in quelle che si rivolgono ad un bene arduo: nell’Ira, nell’Audacia e nella Speranza c’è solitamente una “incandescenza” maggiore che nella semplice Gioia ad esempio. Ma dovendo l’Ira imporre un bene contrastando un male, facendo per così dire un doppio lavoro, il calore corporeo si svilupperà più facilmente nell’irato che nell’audace, cosicché l’Ira tra le passioni è quella di certo più veemente, ed ecco perché anche più facilmente peccaminosa: più facilmente, diciamo, non sempre e comunque.

È chiaro, poi, che questa particolare veemenza della passione facilmente porta delle conseguenze negative, una parziale amissione cioè dell’uso di ragione; si dice abitualmente di una persona arrabbiata che “non ragiona più”, tanto forte è l’appetito di vendetta (giusto o sbagliato che sia), che toglie il corretto uso della mente.

Sarà opera della virtù, dunque, non solo rivolgere la rabbia verso un male autentico e non solo soggettivo e apparente, ma, anche quando montiamo in collera per un giusto motivo, moderare quest’appetito e mantenerlo nei limiti: opera di tutta una vita, per i temperamenti “caldi” e facili all’ira; i quali, però hanno l’insigne esempio di Nostro Signore, che, immediatamente dopo il suo celebre scatto d’ira contro i mercanti del tempio, ritrova la sua abituale calma, comincia d’un tratto a risanare ciechi e zoppi[4], e placa le passioni così come placa la tempesta sul lago.

 

[1] De passionibus animae, t. V, n° 569 ss.

[2] Codex Juris Canonici, c. 2241

[3] Ibidem, c. 2286

[4] Mt, 21, 14

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