dal libro

Lo hanno detronizzato.

Dal liberalismo all’apostasia. La tragedia conciliare.

brani scelti

 

 

 Prima Parte - Il Liberalismo. Principi ed applicazioni.

 Capitolo IX - La libertà di coscienza e dei culti

 

È nella sua Enciclica Libertas che papa Leone XIII passa in rassegna le nuove libertà proclamate dal liberalismo. Io seguirò passo passo la sua esposizione (66).

«A maggior chiarezza delle cose trattate, dice il Papa, prendiamo a considerare l’una dopo l’altra quelle varie libertà, che si vantano come conquiste dell’età nostra».

La libertà dei culti (o libertà di coscienza e dei culti) è la prima: essa è, come spiega Leone XIII, rivendicata come una libertà morale della coscienza individuale e come una libertà sociale, un diritto civile riconosciuto dallo Stato.

«E in primo luogo vediamo sotto il rispetto individuale quella libertà, tanto contraria alla virtù della religione, che chiamano di culto. La quale ha questo fondamento: esser libero ciascuno di professare la religione che gli piace, ed anche di non professarne alcuna. Eppure di tutti gli umani doveri quello senza dubbio è il massimo e più sacrosanto, che ci obbliga ad onorare con pio e religioso affetto Iddio: dovere, che nasce dall’essere Iddio nostro assoluto padrone, padre provvidentissimo, primo principio ed ultimo fine nostro».

Se infatti si presume che l’individuo-re sia l’origine dei suoi propri diritti, è logico che egli attribuisca alla sua coscienza una piena indipendenza nei confronti di Dio e della religione. Leone XIII passa poi alla libertà religiosa in quanto diritto civile (67):

«Considerata rispetto alla società la libertà de’ culti, importa, non esser tenuto lo Stato a professarne o a favorirne alcuno: anzi dover essere indifferente a riguardo di tutti, e averli in conto di giuridicamente uguali, anche se si tratti di nazioni cattoliche».

Se infatti la società altro non è che una collezione puramente convenzionale di individui-re, essa non deve nulla nemmeno a Dio, e lo Stato si considera affrancato da ogni dovere religioso; il che è manifestamente falso, dice Leone XIII:

«Di fatto l’umana società, o si consideri nelle parti che la compongono, o nell’autorità che n’è il principio formale, o nello scopo a cui è ordinata, o nei grandi vantaggi che all’uomo ne provengono, non può dubitarsi che essa è da Dio. Iddio è quegli che creò l’uomo socievole e lo pose nel consorzio de’ suoi simili, affinché i beni, onde ha bisogno la natura di lui e ch’egli, da solo, non avrebbe potuto conseguire, trovasse nell’associazione. Perciò la società civile proprio perché società, deve riconoscere in Dio il padre e l’autore suo, e riverirne e onorarne il potere e dominio sovrano. Ragione adunque e giustizia del pari condannano lo Stato ateo, o, ch’è lo stesso, indifferente verso i vari culti e ad ognuno di loro largo de’ diritti medesimi».

E Leone XIII si guarda bene dal dimenticare una precisazione necessaria: quando si parla della religione in maniera astratta, si parla implicitamente della sola vera religione, che è quella della Chiesa cattolica:

«Posto pertanto che una religione debba professarsi dallo Stato, quella va professata che è unicamente vera e che per le note di verità, che evidentemente la suggellano, non è difficile a riconoscersi, massime in paesi cattolici».

Di conseguenza lo Stato deve riconoscere la vera religione come tale e fare professione di cattolicesimo (68). Le righe seguenti condannano senza appello il preteso agnosticismo dello Stato, la sua pretesa neutralità in materia religiosa:

«Questa dunque conservino, questa tutelino i governi, se vogliono, come è debito loro, provvedere prudentemente e utilmente alla civil comunanza. Giacché a pro dei sudditi è costituito la pubblica potestà: e quantunque il fine suo prossimo sia di procurare ai cittadini la prosperità della vita presente, non deve per questo impedire, ma piuttosto agevolare loro il conseguimento di quel sommo ed ultimo bene, in cui consiste l’eterna felicità nostra, bene non conseguibile senza la pratica della vera religione».

Ritornerò su queste righe che contengono il principio fondamentale che regola i rapporti dello Stato con la religione – mi riferisco sempre alla vera religione.

 

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L’Enciclica Libertas è del 20 giugno 1888. Un anno più tardi, Leone XIII ritornava sulla libertà di culto per condannarla nuovamente in termini mirabili e con un zelo tutto apostolico, nella sua Lettera all’Imperatore del Brasile (69). Eccone degli estratti, che mostrano l’assurdità e l’empietà della libertà dei culti, dal momento che essa implica necessariamente l’ateismo dello Stato:

«La libertà di culto, considerata in rapporto alla società, è basata su questo concetto: che lo Stato, anche in una nazione cattolica, non è tenuto a professarne o a favorirne alcuno. Esso deve essere indifferente a riguardo di tutti e averli in conto di giuridicamente uguali. Non si tratta quindi di quella tolleranza di fatto che in date circostanze può essere accordata ai culti dissidenti; ma bensì di riconoscere a questi i medesimi diritti che competono a quella unica, vera religione, che Dio costituì nel mondo e distinse con caratteri e segni ben chiari e definiti, perché tutti potessero ravvisarla come tale e abbracciarla.

«Con siffatta libertà, pertanto, si pone nella stessa linea la verità e l’errore, la fede e l’eresia, la Chiesa di Gesù Cristo e qualsiasi istituzione umana; con essa si stabilisce una deplorevole e funesta separazione tra la società umana e Dio che ne è l’autore e si giunge alla triste conseguenza dell’indifferentismo dello Stato in materia di religione e, ciò che è lo stesso, del suo ateismo».

Queste parole sono davvero oro colato! Sono parole che si dovrebbero quasi imparare a memoria. La libertà di culto implica l’indifferentismo dello Stato nei confronti di tutte le forme religiose. La libertà religiosa significa necessariamente l’ateismo dello Stato. Giacché, proclamando di riconoscere o favorire tutti gli dei, lo Stato non ne riconosce di fatto nessuno, soprattutto non il vero Dio! Ecco quel che noi diciamo, quando ci viene presentata la libertà religiosa del Vaticano II come una conquista, come un progresso, come uno sviluppo della dottrina della Chiesa! L’ateismo è dunque un progresso? La «teologia della morte di Dio» s’iscrive nella linea della tradizione? La morte legale di Dio! È inimmaginabile!

E voi vedete bene che è di questo che noi stiamo morendo: è in nome della libertà religiosa del Vaticano II che sono stati soppressi gli Stati ancora cattolici, che sono stati laicizzati, che è stato cancellato dalle costituzioni di questi Stati il primo articolo che proclamava la sottomissione dello Stato a Dio suo autore, o nel quale lo Stato faceva professione della vera religione (70). I massoni non ne volevano più sapere, e allora hanno trovato il mezzo radicale: costringere la Chiesa, attraverso la voce del suo magistero, a proclamare la libertà religiosa, niente di più; ma grazie a quest’ultima sarebbe stata ottenuta, per una conseguenza ineluttabile, la laicizzazione degli Stati cattolici.

Voi sapete, è un fatto storico, pubblicato all’epoca dai giornali di New York, che il Cardinale Bea, alla vigilia del concilio, si è recato a far visita ai B’nai B’rith: i «figli dell’Alleanza», una setta massonica riservata ai soli ebrei, molto influente nel mondo occidentale (71). Nella sua qualità di Segretario del Segretariato per l’unità dei cristiani appositamente fondato da Giovanni XXIII, egli ha domandato loro: - Massoni, cosa volete? Essi gli hanno risposto: - la libertà religiosa: proclamate la libertà religiosa e avrà fine l’ostilità tra la massoneria e la Chiesa cattolica! – Ebbene, l’hanno avuta, la libertà religiosa; di conseguenza, la libertà religiosa del Vaticano II è una vittoria massonica! E ciò è corroborato dal fatto che pochi mesi fa il Presidente dell’Argentina Alfonsin, ricevuto ufficialmente alla Casa Bianca a Washington, è stato decorato con la medaglia della libertà religiosa da questi massoni, perché ha instaurato un regime di libertà di culti, di libertà di religione (72). Allora, noi rifiutiamo la libertà religiosa del Vaticano II, la rigettiamo negli stessi termini in cui l’hanno rigettata i papi del XIX secolo, non ci fondiamo sulla loro autorità e su nient’altro che la loro autorità: quale maggior garanzia possiamo avere di essere nella verità, di quella di essere forti della forza medesima della tradizione, dell’insegnamento costante dei Papi Pio VI, Pio VII, Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII, Benedetto XV, ecc., che hanno tutti condannato la libertà religiosa, come vi mostrerò nella nostra prossima conversazione.

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 Mi contenterò di concludere questo capitolo citandovi ancora questo passaggio della Lettera È giunto, dove papa Leone XIII dà prova ancora una volta di una chiaroveggenza e di una forza ammirevoli nel suo giudizio sulla libertà religiosa (ch’egli qui chiama libertà di culto):

«Ma sarebbe superfluo insistere su queste riflessioni. Già altre volte in pubblici documenti diretti al mondo cattolico abbiamo dimostrato quanto sia erronea la dottrina di coloro, che sotto il nome seducente di libertà di culto, proclamano l’apostasia legale della società dal suo Autore divino».

La libertà religiosa è l’apostasia legale della società: rammentatelo bene, perché è questo che io rispondo a Roma, ogni volta che mi si vuole obbligare ad accettare nella sua globalità il Concilio o specialmente la dichiarazione sulla libertà religiosa. Il 7 dicembre 1965, io ho rifiutato di apporre la mia firma in fondo a quest’atto conciliare, e venti anni più tardi, le mie ragioni di continuare a rifiutare questa firma non hanno fatto che crescere. Non si firma un’apostasia!

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66) PIN 201 ss.

67) Si rimanda ai testi citati nel capitolo precedente dalle Encicliche Immortale Dei di Leone XIII e Quanta Cura di Pio IX; e al capitolo seguente.

68) Cioè inscrivere nella sua Costituzione il principio di tale riconoscimento.

69) Lettera È giunto, del 19 luglio 1889, PIN 234-237.

70) Cfr. più avanti, cap. XXXII, nota 271

71) Cfr. H. le Caron, op. cit., p. 46.

72) «Journal de Genève», sabato 23 marzo 1985.

 

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