di don Mauro Tranquillo

Amare è volere il bene dell’altro, odiare è non volerlo. Per qualsiasi cristiano, amare è volere per l’altro il bene supremo, che è Dio stesso; quello stesso bene che Dio vuole comunicare a ogni uomo, tramite la redenzione operata da Gesù Cristo.

Amare come Gesù ama è volere per ciascuno questo bene, e operare perché questo bene diventi comune a tutti: quindi volere che tutti si convertano. Volere per il prossimo i beni terreni (che il Vangelo mostra come fallaci e inconsitenti) senza volergli comunicare Gesù Cristo, è per un cristiano una maligna presa in giro.

Quando gli antichi Pontefici lanciavano anatemi e maledizioni sui nemici della Chiesa, si premunivano di completare le parole rituali con un inciso che salvaguardava questo principio: ogni male doveva capitare a chi opprimeva la Chiesa e i poveri, donec... resipiscat et ad poenitentiam redeat... ut spiritus eius salvus fiat in die judicii (“finché non si penta e torni a penitenza... perché la sua anima sia fatta salva nel giorno del giudizio).

Il Papa si è fatto intervistare da Scalfari. Lo ha chiamato per telefono, si è mostrato molto amabile e amichevole. Ma gli ha detto in faccia che questo bene supremo della conversione non vuole essere lui a procurarglielo, per quanto non possa escludere che la grazia lo tocchi in altro modo: «Santità, - dice Scalfari - s’era detto che Lei non ha alcuna intenzione di convertirmi e credo che non ci riuscirebbe». «Questo non si sa, ma comunque non ne ho alcuna intenzione». Una frase tremenda se detta da qualsiasi cristiano, peggio ancora da un sacerdote, da un Papa. Un cuore sacerdotale non dovrebbe ardere dal desiderio di comunicare la vita e la conoscenza del Cristo? Come può un sacerdote, un Papa, non avere alcuna intenzione di donare il Cristo a un’anima che parla con lui? Queste sono le parole di odio più terribile che un cristiano possa pronunciare, prese nel loro significato oggettivo. Parole d’amore erano –paradossalmente- quelle dei Papi antichi che auguravano dei mali, ma al fine della conversione e della penitenza finale, cioè del conseguimento del massimo e definitivo bene.

Ci sarebbero mille altre cose da dire su questa nuova esternazione del Pontefice. A partire dal ribadito errore sui rapporti tra Chiesa e politica, passando per le parole che attaccano la Chiesa-istituzione opposta a quella “povera e missionaria” (tema che svilupperemo al prossimo Convegno di Rimini), fino alla conferma della peggiore interpretazione possibile di quel “seguire la propria coscienza” come suprema regola morale che era già apparso nella lettera al medesimo Scalfari. Il Papa non invita più a seguire il Cristo, ma incita a seguire l’idea che ciascuno ha di Bene e di Male (concetto ribadito due volte, con insistenza), perché basterebbe questo a creare un mondo migliore (sic). Concetti che si possono definire semplicemente relativismo pelagiano. Come accennavamo, non c’è più alcuna differenza logicamente riscontrabile tra questo relativismo e l’autosufficienza rispetto a Dio insegnata dal serpente ai progenitori («Sarete come Dio, conoscerete il bene e il male»).

Il Papa abbraccia Scalfari. Un bel segno di affetto. Gli concede il calore umano, e gli nega il bene divino. Proselitismo era un termine dispregiativo che indicava l’uso di mezzi sleali per ottenere il maggior numero di conversioni. Ora per il Papa qualsiasi intenzione di convertire il proprio interlocutore ricade in questa categoria, definita una sciocchezza. Purtroppo tutto questo non è che il trionfo dell’odio, e di satana, l’unico che abbia un qualche interesse reale nel tenere le anime a distanza dalla conversione.

 

 

 

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