Com’è noto, in Italia la battaglia contro l’aborto di stato è poco o nulla efficace anche a causa della impossibilità di distinguere con chiarezza le fazioni contrapposte, dal momento che esse tendono a colludere sull’essenziale, ossia l’ineluttabilità della libera scelta della donna e dunque l’accettazione della legge 194/1978 che ha reso legale la cosiddetta interruzione di gravidanza.

 

Abortisti e pseudo pro life si trovano d’accordo, seppur con diverse sfumature, sul fatto che la 194 sia tutto sommato una buona legge, una legge da applicare integralmente anche e soprattutto nella sua parte preventiva. In particolare, si afferma che sulla base di quanto disposto dalla legge 194 la donna possa accedere all’aborto solamente qualora vengano accertate talune particolari condizioni e che quindi esso non costituisca un diritto bensì il tragico ed inevitabile epilogo di situazioni limite o particolarmente gravi.

Inutile dire che tale modo di ragionare non va solamente contro la difesa di valori irrinunciabili (il diritto alla vita del bambino non nato) ma anche contro la logica stessa della legge che, al di là delle vuote affermazioni di principio, sancisce il pieno diritto della donna di decidere della vita e della morte del figlio che porta in grembo. Non sono di certo mancate nel corso degli anni le prove della totale inefficacia della legge contro la deriva abortista (che anzi ha essa stessa innescato), prove che a distanza di molti anni continuano a presentarsi in tutta la loro schiacciante evidenza: un giudice ha condannato gli Ospedali Riuniti di Bergamo a risarcire con 400.000 euro una madre il cui figlio era nato affetto da spina bifida a seguito di accertamenti diagnostici errati.

Secondo il giudice della Prima sezione civile del tribunale della città lombarda vi fu “una inadeguata visualizzazione fotografica degli organi del feto come necessario per la doverosa completezza dell’esame ed in particolare per poter escludere la diagnosi di spina bifida”. Le tesi sostenute dalla difesa vertevano sul fatto che “quand’anche informata la donna non avrebbe verosimilmente optato per l’interruzione di gravidanza sia perché la nascita del figlio era attesa e desiderata da tempo, sia perché ella aveva dichiarato di non sapere cosa avrebbe fatto ove fosse venuta a conoscenza della deformazione fetale”.

Il giudice ha respinto tali tesi difensive con la motivazione che il diritto di scelta va considerato “ex ante e non ex post” e “né può richiedersi che per accedere all’opzione abortiva avrebbero dovuto sussistere tutte le ipotesi previste dalla legge 194 (come asserito dalla difesa), essendo invece sufficiente l’ipotesi del grave pericolo per la salute psichica della donna che costituisce la condizione richiesta dalla legge per l’interruzione di gravidanza”.

In effetti, la legge 194 all’articolo 4 recita: “Per l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell’articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975 numero 405, o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia”. L’intero articolo può essere senz’altro condensato in un’unica perentoria affermazione sulla base di cui la donna può accedere all’aborto per qualsiasi motivo, tra cui la semplice ipotesi del grave pericolo per la sua salute psichica, come correttamente argomentato, sulla base del dettato normativo, dal giudice che ha emesso la sentenza.

A nulla sono valse le tesi difensive degli Ospedali Riuniti di Bergamo, quantunque di buon senso, dal momento che sia il dettato che lo spirito della legge 194 sanciscono il diritto assoluto di aborto e non semplicemente la possibilità per la donna di esercitare un’opzione a certune determinate condizioni. Tanto più che anche nel caso non sia riscontrabile con certezza la presenza di una malformazione nel feto (la percentuale di errore nelle diagnosi prenatali è molto alta) ciò che prevale non è l’interesse del bambino che deve nascere (“In dubiis abstine”), bensì quello della madre, ossia del fruitore dello pseudo diritto di uccidere garantito dalla iniqua legge.

Pertanto, tale sentenza che ordina il risarcimento della “vittima” per il “danno” subito è certamente aberrante ma perfettamente coerente con la legge 194, di cui ne evidenzia in pieno l’ipocrisia e la malvagità intrinseca. (A. D. M.)

Fonte: Corrispondenza Romana

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