di Massimo Viglione

Prima della conclusione del centenario, può essere utile, anche per i non pochi richiami all’attuale situazione politica e religiosa, conoscere meglio sia la figura del conte Vincenzo Ottorino Gentiloni (1865-1916), promotore del noto “Patto Gentiloni” con il quale nel 1913 i cattolici riuscirono ad assestare un duro colpo all’ascesa elettorale delle forze socialiste, massoniche e anticristiane, sia i meccanismi, anche dottrinali, che portarono al “patto” con il silenzioso appoggio di san Pio X.

Il contesto religioso e politico

Il contesto religioso e politico è quello dell’Italia postunitaria, e si può schematizzare nei seguenti punti:

 

1) dal 1870 vige per i cattolici il non-expedit emanato da Pio IX a seguito della Presa di Roma (“né eletti, né elettori”), che di fatto, pur nella piena giustificazione teologica e politica, aveva però escluso la stragrande maggioranza degli italiani per decenni dalla vita politica, facilitando di contro lo strapotere liberal-massonico dei ceti risorgimentali;

2) a 40 anni di distanza da quegli eventi, l’Italia era ormai un Paese in trasformazione sociale, aveva iniziato una sorta di prima industrializzazione che aveva come conseguenza la diffusione tra i ceti popolari delle idee socialiste e anarchiche;

3) alla svolta del secolo, a seguito dei gravi scontri sociali di Milano del 1898 e dell’assassinio di Umberto I, era ormai iniziata l’età giolittiana, il cui protagonista, primo fra i capi di governo italiani a non aver partecipato all’unificazione, si segnalava per lo spregiudicato pragmatismo politico e morale, come per il suo liberalismo a-ideologico e quindi funzionale a tutte le circostanze politiche;

4) in tal senso, Giolitti nel 1912 cedette ai nazionalisti dichiarando guerra alla Turchia per la Libia, e cedette alle forze progressiste accettando il suffragio (quasi) universale maschile, che portava l’elettorato da 3 a 8.500.000 circa di persone aventi diritto. Era chiaramente una svolta epocale, di cui era difficilissimo immaginare le reali conseguenze politiche alle future elezioni;

5) dal punto di vista religioso, dal 1903 era Pontefice Massimo san Pio X, la cui lotta senza quartiere al modernismo religioso e politico condizionava le scelte dei cattolici “impegnati” di quegli anni.

L’impegno del Gentiloni

Appartenente a una famiglia di antica nobiltà marchigiana, figlio di un ufficiale pontificio che aveva combattuto a Castelfidardo contro Cialdini nel 1860, educato nella più sana religiosità, condusse studi giuridici e divenne avvocato penalista a Roma. Fin da giovanissimo si attivò nelle fila del mondo cattolico più tradizionale, all’interno dell’Opera dei Congressi. Fra le sue prime esperienze lavorative, difese i maggiori esponenti cattolici vittime della repressione liberale dopo i fatti del 1898. In occasione delle sue nozze nel 1900, ricevette da Leone XIII l’onorificenza di Cavaliere di Cappa e Spada.

Con lo scioglimento dell’Opera dei Congressi da parte di san Pio X nel 1904, Gentiloni si ritirò a vita privata e si interessò delle sue attività commerciali, finché nel 1909 fu convinto dal Papa stesso ad accettare la carica di Presidente dell’Unione Elettorale Cattolica Italiana (UECI), ricevendo al contempo la commenda di San Gregorio Magno, segno inequivocabile della stima che il pontefice nutriva per lui.

Il Gentiloni capiva che ormai, con il cambiamento dei tempi, l’esclusione attiva e passiva dei cattolici dalla vita politica italiana si tramutava in un forte vantaggio per le forze anticattoliche. Inoltre, da quando san Pio X aveva di fatto restaurato l’Azione Cattolica nel 1905, già si era più volte verificato che in alcuni collegi a rischio vittoria dei socialisti, i cattolici avessero ricevuto dal vescovo una deroga al Non-expedit, divenendo spesso decisivi per la sconfitta delle forze anticristiane. In qualche modo, occorre dire, anche san Pio X comprendeva la necessità di un’apertura dinanzi all’avanzata del socialismo fra i ceti popolari.

Parlando al XX congresso nazionale cattolico svoltosi a Modena dal 9 al 13 novembre 1910, Gentiloni auspicò una più efficace organizzazione elettorale, tale da consentire ai cattolici di far valere il peso della loro forza numerica. «Il cattolico», affermò, «che per indifferenza o per tradizionale lasciar fare, non intende la importanza del voto, non si studia di impegnarsi a far argine alla marea montante, tradisce la causa della Chiesa e della patria. (…) I cattolici sono la maggioranza numerica della nazione. I cattolici son sempre gli sfruttati, i derisi, i conculcati. Da che cosa dipende tutto questo? Dal fatto che i cattolici, nella maggior parte, non sono consci della propria forza, non comprendono il loro dovere, non pensano a organizzarsi sul serio».

Da questo momento iniziò un’infaticabile attività personale in tutta Italia per creare comitati elettorali cattolici e alla fine del 1911 poteva contare su 177 associazioni aderenti.

Il “Patto Gentiloni”

Questo fu il Patto Gentiloni, che divenne poi di tutta evidentissima forza e importanza quando nel 1912 fu approvato il suffragio universale maschile. A questo punto l’attività del conte fu approvata e sostenuta anche da altri esponenti attivi dell’associazionismo cattolico, fra cui Filippo Meda.

In occasione delle elezioni del 1913, ci si batté senza sosta, e si giunse a una “piattaforma elettorale” comune fondata su 7 punti (eptalogo), che i candidati che desideravano il voto dei cattolici dovevano accettare, dandone «sicure garanzie o privatamente per iscritto o con la esplicita inclusione di tali punti nel pubblico programma agli elettori».

I sette punti riguardavano la difesa della libertà di coscienza e di associazione e l’impegno di opporsi «a ogni proposta di legge in odio alle congregazioni religiose»; la difesa dell’insegnamento privato; la difesa del «diritto dei padri di famiglia di avere pei propri figli una seria istruzione religiosa nelle scuole comunali»; la difesa dell’unità della famiglia e l’«assoluta opposizione al divorzio»; il riconoscimento su un piano di parità di «tutte le organizzazioni economiche e sociali indipendentemente dai principii sociali o religiosi ai quali esse si ispirano»; la riforma degli «ordinamenti tributari e degli istituti giuridici», attraverso l’«applicazione dei principii di giustizia nei rapporti sociali»; infine si chiedeva «una politica che tenda a conservare e rinvigorire le forze economiche e morali del paese, volgendole a un progressivo incremento dell’influenza italiana nello sviluppo della civiltà internazionale».

Il Gentiloni si affrettò anche a trasmettere il testo dell’accordo alle personalità e organizzazioni cattoliche italiane, invitandole a sostenere quei candidati «i quali, ritenuti personalmente degni dei nostri suffragi», avevano accettato i sette punti programmatici indicati dai cattolici.

Ad elezioni avvenute, Gentiloni sottolineò lo straordinario successo della sua iniziativa con tali cifre alla mano: ben 228 deputati erano stati eletti con il voto dei cattolici, il non expedit era stato tolto in 330 collegi ed era stata mantenuta l’astensione più assoluta in altri 178, mentre i candidati sostenuti dai cattolici erano stati sconfitti solo in 100 collegi. La salita al potere di Turati e soci era stata sventata. Non solo: i liberali avevano vinto, ma centinaia di loro deputati erano ormai vincolati al Patto con i loro elettori cattolici.

L’ira delle forze laiciste fu immensa, a partire dal Corriere della Sera di Albertini, che denunciò «il pericolo immenso di questo intervento diretto di un conte Gentiloni in nome del Papa nelle più delicate elezioni della penisola». Molti deputati notoriamente massoni si affrettarono a negare di aver firmato il patto, ma vanamente. La vittoria, ancor prima che elettorale e politica, era ideale. I cattolici avevano trovato uno strumento di lotta pacifico e fortissimo. E questo era il grande pericolo.

E, infatti, chi si oppose al Patto Gentiloni all’interno dello stesso mondo cattolico?

Ovviamente lo scomunicato Romolo Murri, del quale ebbe a dire lo stesso conte: «I buoni contadini, fedeli alla religione degli avi, obbedienti al più scrupoloso clero, in tre ore hanno fatto giustizia di un pallone gonfiato». Ma, al di là del pallone gonfiato ed eretico, è da notare che un altro politico si oppose al Gentiloni e alla sua vittoria: si chiamava Luigi Sturzo. Era chiaro che due visioni politiche iniziavano a scontrarsi all’interno del mondo cattolico: quella che, in termini odierni, potremmo definire “dei principi non negoziabili” e quella democristiana, fondata sul compromesso ideale e politico con le forze anticristiane. Purtroppo, la vittoria del patto, che avrebbe potuto effettivamente aprire col tempo alla costituzione di un serio partito cattolico fedele alla Chiesa e alla tradizione cattolica di sempre incarnate in san Pio X, non poté essere in tal senso sfruttata. Nel 1914 morì il santo Pontefice, protagonista recondito dell’intera operazione; e nel 1916 morì anche il Gentiloni. Ciò che venne dopo, si chiama Luigi Sturzo e Partito Popolare, e poi Democrazia Cristiana, il nome che Murri aveva dato al suo movimento. E le conseguenze politiche, religiose e morali di tutto questo sono dinanzi ai nostri occhi.

Concludiamo con una riflessione: a distanza di un secolo, in un mondo profondamente e drammaticamente mutato, in un Italia che in fondo non è poi così cambiata dal punto di vista politico, e in una Chiesa che invece è cambiata e non poco, l’intuizione geniale di san Pio X e la fattiva operosità organizzativa e associativa del conte Gentiloni potrebbero risultare molto più attuali e perseguibili di quanto si possa immaginare. E, occorre amaramente concludere, in gioco non vi è più l’“eptalogo”… bensì la salvezza dello stesso ordine naturale della civile convivenza, della famiglia e della persona umana.

 

Fonte: Corrispondenza Romana