Cosa si intende per «ecumenismo»?

Il termine ecumenismo designa un movimento nato nell’Ottocento in seno a delle comunità non cattoliche e che ha per scopo la collaborazione e il riavvicinamento delle diverse confessioni cristiane. Questo movimento ha portato alla fondazione del «Consiglio Ecumenico delle Chiese»[1]. Con lo stesso spirito si è perseguito in seguito, sulla scia dell’ecumenismo, un avvicinamento tra tutte le religioni (anche quelle non cristiane), che si è voluto ammantare dell’espressione di dialogo interreligioso.

Da dove viene il termine «ecumenismo»?

«Ecumenico» significa «universale». Padre Boyer spiega: «L’uso innovativo della parola “ecumenico” è dovuto al fatto che i protestanti, volendo designare una universalità e non volendo usare il termine cattolico, legato alla Chiesa romana, hanno scelto il suo equivalente, cioè ecumenico»[2].

 

Perché i protestanti hanno sentito il bisogno di lavorare all’unità dei cristiani?

Avendo respinto l’autorità del magistero, che sola può garantire l’unità nella vera fede, i protestanti si sono rapidamente disgregati in innumerevoli confessioni. Per cercare di ritrovare una certa credibilità e frenare quelli che, tra i loro seguaci, erano attratti dall’unità della Chiesa cattolica romana, occorreva loro trovare un mezzo per riunirsi in un altro modo: a questo scopo nacque il movimento ecumenico.

 

Quale fu l’atteggiamento della Chiesa verso il movimento ecumenico?

La Chiesa cattolica ne prese subito con chiarezza le distanze. È soltanto in occasione del Concilio Vaticano II che l’ecumenismo vi è penetrato ufficialmente.

 

In che documenti il Vaticano II ha trattato dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso?

Il Vaticano II ha dedicato all’ecumenismo un decreto speciale che ha per titolo Unitatis redintegratio e ha anche promulgato la dichiarazione Nostra aetate che tratta dei rapporti della Chiesa con le religioni non cristiane.

 

Dove possiamo trovare la posizione cattolica tradizionale sull’ecumenismo?

La posizione cattolica tradizionale sull’ecumenismo è espressa nell’enciclica Mortalium animos (1928). Il suo autore, papa Pio XI, vi descriveva gli sforzi degli «ecumenici» in un modo che resta molto attuale: «Persuasi che rarissimamente si trovano uomini privi di qualsiasi sentimento religioso, sembrano trarne motivo a sperare che i popoli, per quanto dissenzienti gli uni dagli altri in materia di religione, pure siano per convenire senza difficoltà nella professione di alcune dottrine, come su un comune fondamento di vita spirituale. Perciò sono soliti indire congressi, riunioni, conferenze, con largo intervento di pubblico, ai quali sono invitati promiscuamente tutti a discutere: infedeli di ogni gradazione, cristiani, e persino coloro che miseramente apostatarono da Cristo o che con ostinata pertinacia negano la divinità della sua Persona e della sua missione»[3].

 

Che valutazione dava Pio XI di queste attività ecumeniche?

«Non possono certo ottenere l’approvazione dei cattolici tali tentativi fondati sulla falsa teoria che suppone buone e lodevoli tutte le religioni, in quanto tutte, sebbene in maniera diversa, manifestano e significano egualmente quel sentimento a tutti congenito per il quale ci sentiamo portati a Dio e all’ossequente riconoscimento del suo dominio. Orbene, i seguaci di siffatta teoria, non soltanto sono nell’inganno e nell’errore, ma ripudiano la vera religione depravandone il concetto e svoltano passo passo verso il naturalismo e l’ateismo»[4].

 

Cosa ne conclude il Papa?

«Chiaramente consegue che quanti aderiscono ai fautori di tali teorie e tentativi si allontanano del tutto dalla religione rivelata da Dio»[5].

 

Che giudizio bisogna dare, secondo la fede cattolica, sull’ecumenismo?

Essendo la Chiesa cattolica l’unica Chiesa fondata da Cristo e l’unica a possedere la pienezza della verità, l’unità dei cristiani può essere ristabilita solo dalla conversione e dal ritorno nel suo seno degli individui o delle comunità separate. Tale è l’insegnamento di Pio XI in Mortalium animos: «Non si può altrimenti favorire l’unità dei cristiani che procurando il ritorno dei dissidenti all’unica vera Chiesa di Cristo, dalla quale essi un giorno infelicemente si allontanarono»[6]. Si tratta semplicemente della conseguenza logica della rivendicazione da parte della Chiesa di essere la sola a possedere la verità, perché non può esistere vera unità religiosa se non nella vera fede.

 

Prima del Vaticano II, la Chiesa si disinteressava delle comunità separate da essa?

La Chiesa non si è mai disinteressata delle comunità separate da essa, ma al contrario si è sempre sforzata di ricondurre i loro membri all’unità del Corpo mistico di Cristo. Questi sforzi concernevano il più delle volte i singoli individui, talvolta anche la totalità delle comunità separate. In occasione dei Concili di Lione (1245 e 1274) e di Firenze (1439), per esempio, ci si è applicati a ristabilire l’unione con gli orientali separati dalla Chiesa cattolica dal 1054. Convocando il Concilio Vaticano I, nel 1869, Pio IX ha invitato i cristiani separati a porre fine allo scisma e a fare ritorno nella Chiesa cattolica[7]. Leone XIII ha rivolto un appello simile a tutte le confessioni cristiane nel 1894[8].

 

Questi tentativi in cosa si differenziavano dall’ecumenismo attuale?

Questi tentativi si differenziavano dall’ecumenismo attuale perché erano accompagnati dalla ferma convinzione che non era la Chiesa cattolica a dover cambiare, bensì quelli che si erano separati da essa. La Chiesa è sempre stata pronta a facilitare il loro ritorno, ma mai a detrimento della fede cattolica.

 

Qual è la nuova concezione dell’ecumenismo?

Col Vaticano II, gli uomini di Chiesa hanno adottato un nuovo atteggiamento, che corrisponde ad una nuova dottrina. La Chiesa cattolica non viene più presentata come l’unica società religiosa che conduce alla salvezza; le altre confessioni cristiane, e perfino le religioni non cristiane, sono considerate come altre espressioni (senza dubbio meno perfette, ma comunque valide) della religione divina, come vie che conducono realmente a Dio e alla salvezza eterna. Non si parla più di conversione dei non cattolici alla Chiesa cattolica, ma di dialogo e di pluralismo religioso.

 

Si può fare un esempio di questo nuovo atteggiamento?

Il decreto sull’ecumenismo impiega la parola «Chiese» (al plurale) per designare le altre comunità cristiane. Prima si evitava sempre di farlo. Quando si parlava di «Chiese», s’intendevano le Chiese locali, come per esempio la Chiesa (cioè la diocesi) di Napoli o di Milano.

 

La parola «Chiesa» non era usata per designare almeno gli ortodossi?

La parola «Chiesa» era talvolta usata, ma in senso lato, per designare le confessioni scismatiche che conservano la successione apostolica e la validità dei sacramenti, come gli ortodossi. Ma si credeva fermamente che non c’è se non una sola Chiesa in senso proprio, perché Gesù Cristo ne ha fondato una sola. I gruppi che si separavano dalla Chiesa cattolica venivano definiti «confessioni (o comunità) cristiane», ma non si riconosceva loro il titolo di «Chiese». Oggi, invece, questo uso è diventato del tutto comune.

 

Qual è il fondamento teologico di questo nuovo atteggiamento?

Il fondamento teologico di questo nuovo atteggiamento è l’espressione «subsistit in» di Lumen gentium (il documento del Concilio Vaticano II sulla Chiesa). Invece di dire che la Chiesa di Cristo è la Chiesa cattolica, il testo del Vaticano II dice che la Chiesa di Cristo «sussiste» (subsistit in) nella Chiesa cattolica[9].

 

Perché il Vaticano II ha introdotto l’espressione «subsistit in»?

Con l’espressione «subsistit in», il Vaticano II introduce una distinzione tra la Chiesa di Cristo e la Chiesa cattolica, mentre, per la teologia tradizionale, questi due termini hanno esattamente lo stesso significato: la Chiesa di Cristo, cioè la società soprannaturale fondata da Gesù per la salvezza degli uomini, è la Chiesa cattolica.

 

Cosa significa esattamente, per il Vaticano II, l’espressione «subsistit in»?

Il Vaticano II intende affermare che la Chiesa di Cristo trova senz’altro la sua realizzazione perfetta e più compiuta (la sua «sussistenza») nella Chiesa cattolica[10], ma ritiene che tra le due non vi sia una piena identità di soggetto: la Chiesa di Cristo si estenderebbe anche al di là dei confini della Chiesa cattolica, ancorché in modo imperfetto, in virtù degli «elementi di verità» presenti nelle altre confessioni cristiane.

 

Come si può essere certi che questa è la vera interpretazione del «subsistit in»?

Questa interpretazione è stata ufficialmente confermata dalla Congregazione per la dottrina della fede nella dichiarazione Dominus Iesus del 6 agosto 2000: «Con l’espressione “subsistit in”, il Concilio Vaticano II volle armonizzare due affermazioni dottrinali: da un lato che la Chiesa di Cristo, malgrado le divisioni dei cristiani, continua ad esistere pienamente soltanto nella Chiesa cattolica, e dall’altro lato “l’esistenza di numerosi elementi di santificazione e di verità al di fuori della sua compagine”[11], ovvero nelle Chiese e comunità ecclesiali che non sono ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica».

 

Cosa possiamo notare in questo testo?

Possiamo innanzitutto notare che il testo designa le comunità separate da Roma come «delle comunità ecclesiali che non sono ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica». Il che implica, a rigor di logica, che esse siano almeno in comunione parziale o imperfetta.

 

L’espressione «piena comunione» è nuova?

La distinzione tra comunione «perfetta» e «imperfetta» (o «piena» e «non piena») costituisce una delle innovazioni teologiche del Concilio Vaticano II[12].

 

Qual è l’insegnamento tradizionale della Chiesa su questo argomento?

L’insegnamento tradizionale della Chiesa è questo: per salvarsi bisogna appartenere alla Chiesa o in re (cioè realmente, attraverso il battesimo, la professione della fede cattolica e la sottomissione alla gerarchia), o almeno in voto (cioèattraverso ciò che viene chiamato battesimo di desiderio, che può essere esplicito o implicito)[13].  Di conseguenza quelli che non hanno la fede cattolica o che non sono sottomessi alla gerarchia, e che, per di più, non hanno dentro di sé nessun desiderio nemmeno implicito di cercare la verità, non possono, se perseverano in queste disposizioni, procurarsi la salvezza: è questo il senso dell’adagio extra Ecclesiam nulla salus(«fuori della Chiesa non c’è salvezza»), che dunque non esclude che ci possa salvare anche al di fuori dei confini giuridici della Chiesa cattolica, ma insegna che senza la Chiesa, cioè senza o farne parte o almeno essere ordinati ad essa con il battesimo di desiderio, gli uomini non possono conseguire la salvezza eterna.

 

Qual è l’innovazione del Vaticano II?

Il Vaticano II ha cercato di trovare una sorta di condizione intermedia tra l’appartenenza alla Chiesa e la non appartenenza. I cristiani non cattolici, in quest’ottica, sarebbero in «comunione imperfetta» con la Chiesa (cfr. Unitatis redintegratio, n, 3; Lumen gentium, n. 15). Questo implica, logicamente, la possibilità che i membri di comunità non cattoliche possano conseguire la salvezza eterna anche senza avere il desiderio (neppure implicito) di aderire alla verità cattolica.

 

In che modo, secondo il Vaticano II, le comunità dissidenti possono essere in «comunione imperfetta» con la Chiesa?

Per affermare che le comunità separate dalla Chiesa sono in «comunione imperfetta» con essa, il Vaticano II fa appello al fatto che in esse sarebbero presenti «elementi di santificazione e di verità» mediante i quali prendono parte, sia pure imperfettamente, alla comunione con l’unica Chiesa di Cristo.

 

Ci sono numerosi gruppi separati dalla Chiesa di Roma che continuano ad affermare verità come la divinità di Gesù Cristo, e anche alcuni che hanno ancora i sacramenti validi (come gli ortodossi): non è dunque vero che le comunità separate dalla Chiesa cattolica conservano degli elementi di verità e di santificazione?

È senz’altro vero che ci sono gruppi separati dalla Chiesa cattolica che continuano ad affermare delle verità (diverse confessioni protestanti, ad esempio, professano la divinità di Gesù Cristo) o conservano i sacramenti validi (come gli ortodossi). Ma la teologia tradizionale non ha mai qualificato queste realtà – mutuate dalla Chiesa cattolica – come «elementi di santificazione» o «elementi di verità», ma piuttosto come delle «vestigia» della vera religione.

 

La sostituzione del termine «vestigia» con il termine «elementi di santificazione e di verità» è tanto importante?

Questo cambiamento lessicale non è di secondaria importanza, perché la parola «vestigia» esprimeva una verità capitale: gli elementi mutuati dalla Chiesa cattolica da parte delle comunità separate cessano, per il fatto stesso di essere avulsi dalla sola società religiosa alla quale Gesù Cristo li ha conferiti, di essere una realtà vivente e, per numerosi che possano essere, sono come delle “macerie” che tali comunità ereditano dalla loro precedente appartenenza alla Chiesa.

 

È noto, però, che il sacramento del battesimo conferito da una comunità separata dalla Chiesa può essere valido: almeno in questo caso il termine «elemento di santificazione» non è più appropriato di quello di «maceria»?

Qui occorre introdurre un’altra distinzione della teologia tradizionale: quella tra sacramento valido e sacramento fruttuoso. Un sacramento può essere valido senza essere fruttuoso, cioè senza dare la grazia, se nell’anima incontra un impedimento a questa grazia.

 

Si può precisare con un esempio la distinzione tra sacramento valido e sacramento fruttuoso?

Il sacramento del matrimonio sarebbe ricevuto validamente ma non fruttuosamente da una persona in stato di peccato mortale. La persona, in tal caso, sarebbe realmente sposata, ma non riceverebbe le grazie abitualmente date dal sacramento.

 

In che cosa questa distinzione tra sacramento valido e sacramento fruttuoso riguarda le comunità separate dalla Chiesa cattolica?

La distinzione tra sacramento valido e sacramento fruttuoso è importante perché l’appartenenza ad una comunità separata dalla Chiesa cattolica è di per sé un impedimento alla grazia. Ciò implica che una realtà sacra, benché santa in sé stessa, non può essere un autentico elemento di santità in quanto amministrata in seno ad una comunità separata dalla Chiesa. Tale comunità è, di per sé, un impedimento all’efficacia santificante dell’elemento di cui si è impadronita.

 

Non c’è assolutamente nessun caso in cui i sacramenti dispensati al di fuori della Chiesa possono essere fruttuosi (cioè dare la grazia)?

I sacramenti conferiti in una comunità separata dalla Chiesa cattolica possono essere fruttuosi solo nel caso in cui la persona che li riceve non aderisca formalmente all’eresia o allo scisma professati da tale comunità (è il caso, ad esempio, dei bambini che non hanno ancora l’uso della ragione, ai quali il battesimo conferisce in ogni caso la grazia, appunto perché, non avendo ancora l’uso della ragione, non possono aderire ad alcuna professione  di fede eterodossa; ed è anche il caso delle persone che sono in stato di «ignoranza invincibile», cioè senza colpa da parte loro). In tal caso, anche se il sacramento è materialmente ricevuto in seno ad una comunità separata dalla Chiesa, la persona lo riceve in modo fruttuoso per il fatto che, per via della sua intenzione interiore (in voto), si sottrae all’adesione formale a tale comunità.

 

Questo insegnamento è già presente nei Padri della Chiesa?

Sì. Sant’Agostino, ad esempio, spiega che tutti i beni che sono nella Chiesa possono trovarsi, in una certa misura, al di fuori di essa, salvo la grazia mediante la quale questi beni sono salvifici: «Dio nella sua unità può essere onorato fuori dalla Chiesa; la fede che è una, può incontrarsi al di fuori di essa; il battesimo, che è unico, può essere amministrato validamente fuori dal suo seno. E tuttavia, come non c’è che un Dio, una fede, un battesimo, così non c’è che una sola incorruttibile Chiesa: non quella sola in cui il vero Dio è onorato, ma quella sola in cui è onorato con pietà; non quella sola in cui la vera fede è conservata, ma quella sola in cui è conservata con la carità; non quella sola in cui esiste il vero battesimo, ma quella sola in cui esso esiste per la salvezza» (Ad Cresc., I, 29).

 

Si può citare, su questo argomento, un altro testo antico e autorevole?

San Beda il Venerabile, che si è formato alla scuola dei Padri della Chiesa e nelle sue opere ne ha efficacemente riassunto il pensiero, nel suo commento alla prima epistola di san Pietro esprime questa verità in modo chiarissimo. Partendo dall’analogia fatta da san Pietro tra il diluvio  universale ed il battesimo (1P 3,21), spiega che per quelli che sono battezzati fuori dalla Chiesa l’acqua del battesimo non è strumento di salvezza, ma piuttosto di perdizione: «Il fatto che l’acqua del diluvio non salvi, ma uccida quelli che sono situati fuori dall’arca, prefigura senza alcun dubbio che ogni eretico, benché possieda il sacramento del battesimo, è sprofondato agli inferi non da altre acque, ma da quelle stesse che sollevano l’arca al cielo»[14].

 

Non è esagerato dire che il battesimo ricevuto fuori dalla Chiesa è uno strumento di perdizione?

La partecipazione attiva ad una cerimonia religiosa di una comunità eretica o scismatica è in sé, per sua stessa natura, un consenso alla professione di fede di questa comunità[15]. Anche il battesimo, quindi, in tali circostanze diventa occasione di dannazione: è per questo che san Beda il Venerabile dice che l’acqua stessa del battesimo è, in questo caso, strumento di perdizione.

 

Il Vaticano II si oppone a questo insegnamento?

Sì, il Vaticano II si oppone a questo insegnamento, affermando che le comunità cristiane non cattoliche sono in comunione parziale con la Chiesa, e lasciando intendere che, in esse, c’è una certa presenza , benché imperfetta, della Chiesa di Cristo.

 

Questa idea di una presenza imperfetta della Chiesa di Cristo nelle comunità separate dalla Chiesa cattolica è stata enunciata esplicitamente?

Sì, questo concetto è stato espresso esplicitamente. Giovanni Paolo II, ad esempio, nell’enciclica Ut unum sint afferma: «Nella misura in cui tali elementi [di santificazione e di verità] si trovano nelle altre comunità cristiane, l’unica Chiesa di Cristo ha in esse una presenza operante»[16].

 

Questa idea si trova espressa anche nei testi del Concilio?

Nel decreto Unitatis redintegratio, riguardo alle Chiese orientali scismatiche leggiamo: «Perciò con la celebrazione dell’eucarestia del Signore in queste singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce, e con la concelebrazione si manifesta la comunione tra di esse» (n. 15). Una comunità che si è separata dalla vera Chiesa è quindi considerata come appartenente, anche se in modo imperfetto, alla «Chiesa di Dio».

 

Il Vaticano II come considera le religioni non cristiane?

Anche verso le religioni non cristiane il Vaticano II cerca di avere la visione più accomodante possibile. La dichiarazione conciliare Nostra aetate si sforza di vedere in ogni modo valori positivi nell’induismo, nel buddismo, nell’islam e nel giudaismo, tralasciando invece gli errori che li caratterizzano. Non si può non registrare in questo atteggiamento un netto cambiamento rispetto al passato.

 

Questo cambiamento di atteggiamento è riconosciuto pubblicamente?

Il documento Dialogo e Missione del Segretariato pontificio per i non cristiani del 4 settembre 1984 (dunque un documento ufficiale di un organo della Santa Sede) afferma esplicitamente, fin dalle prime righe: «Il Concilio Vaticano II ha segnato una tappa nuova nelle relazioni della Chiesa con i seguaci delle altre religioni. […] Questo nuovo atteggiamento ha preso il nome di dialogo» (nn. 1 e 3).

 

Che significa la parola «dialogo» nel linguaggio conciliare?

Il documento Dialogo e Missione, riguardo alla parola «dialogo», dice: «Indica non solo il colloquio, ma anche l’insieme dei rapporti interreligiosi, positivi e costruttivi, con persone e comunità di altre fedi per una mutua conoscenza e un reciproco arricchimento» (n. 3). E lo stesso documento fornisce, al n. 13, queste ulteriori precisazioni: «Vi è il dialogo nel quale i cristiani incontrano i seguaci di altre tradizioni religiose per camminare insieme verso la verità e collaborare in opere di interesse comune».

 

Cosa si può desumere da queste affermazioni?

Se si pensa che i cattolici lavorano con i non cristiani alla ricerca della verità e che si tratta di un arricchimento reciproco, si deve presupporre, a rigor di logica, che la Chiesa cattolica non è la sola a possedere la verità.

 

I sostenitori dell’ecumenismo conciliare hanno esplicitamente rinunciato a convertire i non cattolici?

Molti dei sostenitori dell’ecumenismo conciliare hanno rinunciato a convertire i non cattolici. Leggiamo ad esempio in un «Catechismo ecumenico», con la prefazione di mons. Degenhardt, arcivescovo di Paderborn, e vivamente elogiato da molti vescovi: «Lo scopo non è il ritorno, ma piuttosto la comunione di Chiese sorelle; unità nella diversità riconciliata; unità delle Chiese. Le Chiese rimangono, ma diventano una sola Chiesa»[17].

 

Perché è scorretto dire che le confessioni cristiane non cattoliche sono delle realizzazioni parziali della Chiesa di Cristo?

Le confessioni cristiane separate dalla Chiesa cattolica sono dei gruppi dissidenti che non possono ad alcun titolo appartenere alla Chiesa di Cristo, che è la Chiesa cattolica. Anche se esse conservano certe verità cristiane e, talvolta, anche la validità di alcuni sacramenti, restano comunque separate dal Corpo mistico di Cristo.

 

In che modo si appartiene alla vera Chiesa di Cristo?

Papa Pio XII insegna in Mystici corporis che sono necessari tre elementi per appartenere alla vera Chiesa di Cristo: il battesimo, la professione della vera fede e la sottomissione alla legittima autorità. «Tra i membri della Chiesa bisogna annoverare esclusivamente quelli che ricevettero il lavacro della rigenerazione, e professando la vera fede, né da sé stessi disgraziatamente si separarono dalla compagine di questo Corpo, né per gravissime colpe commesse ne furono separati dalla legittima autorità»[18].

 

Gli ortodossi, che conservano i sacramenti e sono d’accordo con la Chiesa cattolica sulla maggior parte dei punti di fede, non appartengono alla vera Chiesa di Cristo?

Gli ortodossi, anche se conservano i sacramenti e sono d’accordo con la Chiesa cattolica sulla maggior parte dei punti di fede, non sono nella vera Chiesa di Cristo: essi rifiutano, infatti, di riconoscere il primato e l’infallibilità del successore di Pietro, e Gesù Cristo ha detto che colui che rifiuta di ascoltare la Chiesa è da considerare come un pagano ed un pubblico peccatore (cfr. Mt 18,17). Inoltre, come abbiamo già visto in precedenza[19], la negazione anche di un solo dogma di fede comporta la perdita della fede soprannaturale, che non è possibile avere solo “parzialmente”.

 

Si può dire lo stesso delle comunità eretiche?

Se le comunità scismatiche non appartengono all’unica Chiesa di Cristo, a fortiori non vi appartengono le comunità eretiche – per esempio quelle protestanti – che si allontanano dalla vera fede in molti più punti.

 

Questa verità è stata messa in discussione all’interno della Chiesa?

A partire dal Concilio Vaticano II, questa verità è sistematicamente messa in discussione dagli stessi vertici della gerarchia ecclesiastica. Per esempio, il 6 maggio 1983, la commissione mista cattolico-luterana, riunita a Kloster Kirchberg nello Wurtemberg, ha dichiarato riguardo all’eresiarca Lutero: «Insieme, cominciamo a riconoscerlo come un testimone del Vangelo, come un maestro nella fede, come un araldo del rinnovamento spirituale. […] La presa in considerazione del condizionamento storico dei nostri modi di espressione e di pensiero ha contribuito ugualmente a far riconoscere largamente negli ambienti cattolici il pensiero di Lutero come una forma legittima della teologia cristiana»[20].

 

Le confessioni cristiane non cattoliche e le religioni non cristiane sono dei mezzi di salvezza?

Le confessioni cristiane non cattoliche e le religioni non cristiane non sono, in sé stesse, mezzi di salvezza, ma piuttosto di perdizione. Ciò non significa che nessuno dei loro seguaci potrà salvarsi: anche un protestante, un islamico o un buddista può salvarsi, se, vivendo secondo la propria coscienza e sforzandosi di compiere la volontà di Dio per quanto la conosce, riceve da Dio le virtù teologali; ma, anche in tal caso, non si salva attraverso la religione a cui materialmente appartiene, bensì malgrado gli errori che essa insegna e solo Dio sa quando ciò avviene. Noi possiamo solo dire che – senza poter in alcun modo sapere chi concretamente si salva e chi no – ci si può salvare anche nelle false religioni e nonostante esse, ma non attraverso di esse.

 

Le comunità non cattoliche (protestanti, per esempio) forniscono ai loro membri un certo numero di beni utili alla salvezza (battesimo, Sacra Scrittura, ecc.); non sono, almeno in questo, mezzi di salvezza?

Tutto ciò che si può trovare di vero e di buono in un contesto eretico o scismatico appartiene di diritto alla Chiesa cattolica. Anche il decreto conciliare sull’ecumenismo Unitatis redintegratio ha dovuto precisare questo punto, al n. 3, su espressa richiesta di Paolo VI.

 

Come fu accettata questa precisazione del Papa?

Immaginiamo senza difficoltà che i teologi liberali non ne furono soddisfatti. Rahner e Vorgrimler commentarono la cosa così: «Che questi beni appartengano di diritto (iure) alla Chiesa di Cristo, è una delle diciannove modifiche pontificie che vennero aggiunte nel novembre 1964 ad un testo che era già stato votato, e che a motivo della loro ristrettezza hanno provocato un’impressione più sfavorevole di quanto non giustifichi veramente l’insegnamento che vi è contenuto. (Noi qui alludiamo soltanto ai cambiamenti per cui i non cattolici  si sono particolarmente dispiaciuti)»[21].

 

Il Vaticano II su questo punto si richiama, dunque, alla dottrina cattolica tradizionale?

Su questo punto il Vaticano II è rimasto in linea con la Tradizione, ma, come spesso accade nei documenti conciliari, questa asserzione tradizionale è poco dopo contraddetta da un altro passaggio. Nelle righe successive del medesimo paragrafo di Unitatis redintegratio, infatti, si può leggere: «Lo Spirito di Cristo […] non ricusa di servirsi di esse [delle comunità separate] come di strumenti di salvezza, la cui forza deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica».

 

E invece le comunità separate dalla Chiesa e le religioni non cristiane non possono essere mezzi di salvezza?

Le comunità separate dalla Chiesa cattolica e le religioni non cristiane non possono ad alcun titolo essere dei mezzi di salvezza; di per sé, a rigor di termini, esse sono piuttosto degli ostacoli alla salvezza, e in certe circostanze possono tutt’al più essere delle occasioni di salvezza. Se, infatti, alcuni dei loro membri sono in stato di grazia, è unicamente perché sono nell’ignoranza invincibile e quindi non sono colpevoli della loro separazione dal corpo della Chiesa. Secondo l’insegnamento tradizionale, essi possono appartenere alla comunione dei santi e, in questo modo, ottenere la salvezza eterna: ma vi appartengono individualmente e non attraverso la loro comunità. Le comunità dissidenti, di per sé stesse, lungi dal condurre alla Chiesa cattolica, allontanano da essa, e perciò non rientrano nell’ordine dei mezzi scelti da Dio nell’economia della salvezza.

 

Che bisogna pensare del ragionamento secondo cui le comunità separate sono dei mezzi di salvezza a causa degli elementi di santificazione di cui sono portatrici?

Questo ragionamento è illogico, perché si basa su qualcosa che accade per accidens (accidentalmente), a causa delle disposizioni personali di tale o talaltro membro di queste comunità, e pretende di trarne una conclusione sul valore proprio (per se) di queste stesse comunità. Con lo stesso genere di ragionamento, allora, si potrebbe dire che Giuda è un santo e che ha compiuto un atto eminentemente meritorio consegnando Cristo ai suoi carnefici, poiché così ha permesso la redenzione del genere umano. Invece, a rigor di termini, si dovrà dire che il tradimento di Giuda è stato l’occasione e non la causa della redenzione.

 

Cosa dobbiamo pensare dei giudizi positivi che il Concilio Vaticano II formula sull’induismo, il buddismo, l’islam e il giudaismo nel suo testo Nostra ætate (il documento sulle religioni non cristiane)?

La dichiarazione conciliare Nostra ætate, su questo punto, manifesta chiaramente di non essere imparziale. Il suo relatore ufficiale dichiarò pubblicamente, presentando il testo nel corso del Concilio, che essa non aveva per scopo di dire la verità intera su quelle religioni, ma di menzionare esclusivamente gli aspetti che le potessero avvicinare al cristianesimo[22].

 

La dichiarazione Nostra aetate, però, non riprende la dottrina tradizionale affermando anche che la Chiesa «annuncia ed è tenuta ad annunciare il Cristo, che è “la via, la verità, la vita” (Gv 14,6) in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con sé stesso tutte le cose» (n. 2)?

Alla luce di tutto il resto del testo e di quanto è detto negli altri documenti conciliari, dire che gli uomini devono trovare in Cristo «la pienezza della vita religiosa» non è affatto incompatibile con l’idea che anche le altre religioni siano mezzi salvifici, perché lascia intendere che, se la verità si trova pienamente solo nella Chiesa di Cristo, suoi elementi si trovano anche – parzialmente ma realmente – al di fuori di essa. La Sacra Scrittura, invece, insegna che Gesù Cristo è «l’unico mediatore tra Dio e gli uomini» (1Tm 2,5), l’unico ambasciatore gradito a Dio, «così da poter  intercedere in loro favore» (Eb 7,25). «Chi è il mentitore, se non chi nega che Gesù è il Cristo? Colui che nega il Padre e il Figlio è l’anticristo. Chiunque nega il Figlio, non ha neanche il Padre» (1Gv 2,22-23). E ancora: «Non c’è sotto il cielo alcun altro nome dato agli uomini dal quale possiamo aspettarci di essere salvati» (At 4,12). Ogni religione che rifiuta questa mediazione è intrinsecamente cattiva: è perciò contraddittorio pretendere di annunciare Cristo e nello stesso tempo di fare l’elogio, anche solo parziale, delle religioni che vi si oppongono.

 

Non tutto ciò che le religioni non cristiane affermano è falso. Ci sono quindi degli elementi positivi anche in esse: ciò non obbliga almeno ad una certa apertura verso questi valori positivi?

Per capire meglio il problema possiamo servirci di un esempio tratto dalla realtà materiale. Un alimento è giudicato buono o cattivo non soltanto in funzione degli elementi che contiene, ma nel suo complesso; infatti, la cattiva ripartizione di ingredienti che in sé, presi isolatamente, sarebbero ottimi, può bastare a danneggiare l’insieme. L’introduzione, poi, di un solo ingrediente avariato basta a rendere immangiabile tutto l’alimento; e l’aggiunta di una sola goccia di veleno può essere letale: anche il dolce più buono, nessuno si arrischierebbe a mangiarlo selezionando le parti che presuppone non avvelenate. Tutto questo, fuor di metafora, vale anche nell’ordine spirituale. Una religione non è soltanto la somma aritmetica di una serie di elementi: essa forma un insieme (così come un sistema scientifico o filosofico, una dimostrazione, ecc.). Ciò che conta è che sia buono l’insieme nel complesso, nella sua interezza. Se l’insieme non è buono perché viziato da qualche elemento negativo, tutti gli elementi buoni che eventualmente persistono in esso non potranno in alcun modo renderlo intrinsecamente buono.

 

Si può fare un esempio?

L’islam si presenta come una religione monoteista e questo aspetto, perfettamente vero, costituisce una parte importante della sua dottrina. Ma questo monoteismo si presenta anche come radicalmente antitrinitario. Perciò, anche se vero in sé, il monoteismo islamico viene ad essere viziato dal sistema nel quale si trova inserito.

 

Tuttavia, ci sono delle gradazioni nell’errore: non si può dire almeno che una religione che, benché falsa, riconosce l’esistenza di un Dio unico e impone una certa morale, sia meglio dell’ateismo e dell’immoralità assoluta?

Certamente ci sono delle gradazioni nell’errore. Ma, di per sé, non è la somma materiale degli elementi positivi che un errore contiene ancora a determinare la sua vicinanza alla verità, proprio come non è la somma aritmetica di verità su cui si è d’accordo che favorisce una conversione (se ciò fosse vero, ad esempio, un ortodosso dovrebbe convertirsi al cattolicesimo con molta più facilità di un ateo, perché ha nella sua comunità molti più “elementi di verità” dell’ateo: e invece nella maggior parte dei casi l’esperienza insegna che un ateo si converte più facilmente, perché quegli elementi veri, inseriti in un contesto acattolico, possono diventare perfino un ostacolo al ritorno alla verità).

Si può affermare, come tendenza generale, che un sistema che, nel separarsi dalla verità, ne conserva un maggior numero di elementi, può essere perfino più pericoloso di un altro che ne ha meno, perché non c’è errore più pericoloso di quello che più somiglia alla verità. Si trovano esempi di questo principio anche nell’ordine naturale: una sedia con tre gambe, che sta più o meno in piedi, è più pericolosa di una sedia con due gambe su cui a nessuno verrebbe l’idea di sedersi; una banconota falsa imitata benissimo è più pericolosa di una imitata meno bene e quindi facilmente riconoscibile.

 

Cosa si deve pensare del ragionamento che afferma che Dio «è operante» nelle religioni non cristiane, dato che vi si può trovare del bene che non può provenire se non da Dio?

Questo ragionamento, quando dice che Dio «è operante» nelle religioni non cristiane, non distingue sufficientemente tra l’ordine naturale e quello soprannaturale: è evidente, infatti, che quando si parla di un’azione di Dio in una religione, ci si riferisce ordinariamente ad un’operazione salvifica, si vuole dire cioè che Dio salva con la sua grazia soprannaturale. Gli elementi buoni che si trovano nelle religioni non cristiane sono solo di ordine naturale, mentre non ci sono in esse veri beni soprannaturali; Dio, quindi, senz’altro «è operante» in esse, ma a titolo di creatore (e a questo titolo, del resto, Dio «è operante» in qualsiasi cosa), in quanto cioè dà l’essere ad ogni cosa, ma non in quanto salvatore.

 

L’induismo allontana dalla salvezza eterna?

L’induismo, predicando la reincarnazione, toglie serietà alla vita terrena. Essa non è più la prova decisiva da cui dipende tutta l’eternità, ma una semplice tappa, dato che l’anima deve reincarnarsi – anche in un animale – altrettante volte quanto risulti necessario all’espiazione delle sue colpe. Per questa stessa ragione, l’induismo non conosce la misericordia: passa con freddezza davanti ai poveri e quelli che soffrono, ritenendo che portino giustamente il peso dei loro peccati.

 

Il buddismo allontana dalla salvezza eterna?

Il buddismo è una religione senza Dio. L’uomo crede di potersi salvare da solo e questa salvezza consiste nel penetrare nel «nulla», il nirvana. Il buddismo non aspetta una vita eterna di unione con Dio, ma solo la fine delle sofferenze nella dissoluzione della propria esistenza.

 

L’islam allontana dalla salvezza eterna?

L’islam respinge come una bestemmia la Santissima Trinità e, di conseguenza, la divinità di Cristo. Incoraggia la crudeltà (lodando l’omicidio di un cristiano come un’opera buona) e la sensualità (incoraggiando la poligamia e promettendo agli uomini un paradiso di gioie sensuali). Citiamo come esempio qualche suradel Corano: «I cristiani hanno detto: “Il Messia è figlio di Dio!”. Questo verbo gli scappa di bocca; essi imitano il verbo di coloro che non avevano creduto già prima di loro. E li annienti Dio, li annienti! Quanto sono imbecilli!»[23]. «Quando incontrate gli increduli, colpiteli alla nuca fino a domarli, poi serrate bene i ceppi, in seguito delibererete se gli dovete concedere la grazia o se dovete esigere il riscatto, fino a che la guerra non abbia deposto il suo carico d’armi»[24]. Quanto al paradiso, oltre alle «urì dagli occhi grandi, somiglianti alle perle di uno scrigno», secondo il Corano ci saranno anche dei conturbanti «immortali» efebi che «sembreranno perle disperse» e che «porteranno coppe e tazze di bevanda fresca e pura»[25].

 

Il giudaismo allontana dalla salvezza eterna?

Gli ebrei attuali rifiutano Gesù Cristo. Prima della venuta di Cristo, il giudaismo era la vera religione, ma ora non lo è più, poiché ha disconosciuto la sua vocazione e non ha voluto accogliere il suo salvatore. I veri ebrei si sono convertiti a Cristo, perché, alla sua venuta, la religione giudaica dell’Antico Testamento ha perduto il suo significato e la sua giustificazione. Di conseguenza è inaccettabile che un vescovo cattolico possa dire: «La Chiesa non può essere il nuovo Popolo di Dio se non mantenendo la continuità e la parentela con Israele. La rottura tra la Sinagoga e la Chiesa fu infatti la prima divisione nella Chiesa. Lo scopo dell’ecumenismo è la riconciliazione tra la Chiesa e la Sinagoga»[26].

 

In definitiva, cosa possiamo dire a proposito delle religioni non cristiane?

Non si può che ripetere le parole di san Pietro: «Non c’è sotto il cielo alcun altro nome [rispetto a quello di Gesù] dato agli uomini dal quale possiamo aspettarci di esser salvati» (At 4,12).

 

Non si deve almeno sperare che, in qualche modo, i non cristiani possano salvarsi anche senza entrare a far parte della Chiesa?

La Chiesa ha sempre ammesso che, in via di principio, dei non cristiani possono salvarsi quando hanno il battesimo di desiderio implicito (cioè se sono nell’errore senza colpa da parte loro, ricercano onestamente la verità e accettano la grazia di Dio)[27]. Ma le condizioni del battesimo di desiderio implicito sono inverificabili individualmente: non possiamo mai sapere se tale o talaltro non cristiano si salva oppure no. D’altronde, c’è invece motivo di temere che, a causa degli errori diffusi nelle religioni non cristiane e delle seduzioni del mondo, il numero di non cristiani che ricercano in modo così disinteressato la verità non sia molto elevato. È questo che spinse papa Pio IX a denunciare come un errore la seguente proposizione: «Almeno si deve bene sperare della eterna salvezza di tutti coloro che non sono nella vera Chiesa di Cristo»[28].

 

Le religioni non cristiane adorano il vero Dio?

Le religioni non cristiane non adorano il vero Dio. Il vero Dio, infatti, è il Dio trinitario che si è rivelato nell’Antico Testamento e, soprattutto, nel Nuovo, tramite suo Figlio Gesù Cristo. «Chiunque nega il Figlio non ha neanche il Padre» (1Gv 2,23); «nessuno viene al Padre, se non per mezzo mio», ha detto Gesù (Gv 14,6).

 

Non possiamo dire che gli ebrei e i musulmani hanno un’idea giusta ma incompleta di Dio, e che di conseguenza adorano il vero Dio?

Non conoscere una verità e respingerla sono due cose ben diverse. Sarebbe corretto applicare questo concetto di un’idea giusta ma incompleta di Dio agli ebrei del’Antico Testamento: ad essi, infatti, la Santissima Trinità non era stata ancora rivelata, e quindi non ci credevano esplicitamente, ma neppure la respingevano. Gli islamici (e gli ebrei di oggi) negano espressamente la Santissima Trinità rivelata da Gesù Cristo. Pregano un Dio che sarebbe una persona sola: ma un Dio del genere non esiste.

 

Gli ebrei e i musulmani, tuttavia, intendono onorare l’unico Dio che esiste, colui che ha creato il cielo e la terra, colui che si è rivelato ad Abramo, Isacco e Giacobbe; così facendo, non si rivolgono al vero Dio?

I non cristiani possono avere una certa conoscenza naturale di Dio in quanto autore della natura, e perfino in quanto autore di alcune rivelazioni (ad Abramo, Isacco, Giacobbe, ecc.). Ma questa conoscenza resta puramente naturale di Dio ed è falsata dagli errori che ogni falsa religione contiene. Solo la fede soprannaturale fa penetrare nell’intimità divina e permette di avere dei rapporti familiari con Lui ed apre la via alla salvezza.

 

Una persona che prega basandosi su una conoscenza puramente naturale di Dio non compie una buona azione?

Una simile preghiera sarebbe in sé una buona azione (benché senza valore soprannaturale) se non fosse associata a degli errori o a dei riti superstiziosi che, lungi dall’onorare Dio, lo offendono. Il musulmano che, più volte al giorno, afferma che Dio non è generato e non genera, bestemmia il Dio che crede di onorare. Certo, può essere scusato per questa bestemmia per via della sua ignoranza incolpevole, ma, oggettivamente parlando, l’atto che compie non è un atto di religione.

 

Queste verità fondamentali sono messe in discussione oggi, nella Chiesa, dagli esponenti della gerarchia?

Ascoltiamo, a titolo di esempio, un autorevole esponente della gerarchia ecclesiastica, l’allora cardinale Karol Wojtyla: «Questo Dio, nel suo silenzio, professa il trappista oppure il camaldolese. A Lui si rivolge il beduino nel deserto quando arriva l’ora della preghiera. E forse anche il buddista concentrato nella sua contemplazione, che purifica il suo pensiero preparando la strada al nirvana. Dio nella sua trascendenza assoluta, Dio che trascende assolutamente tutto il creato, tutto ciò che è visibile e comprensibile»[29].

 

Cosa possiamo dire di tali affermazioni?

Tali affermazioni sono pervase di uno spirito e di un modo di pensare del tutto estraneo alla Sacra Scrittura. L’Antico Testamento è pieno dell’ira di Dio contro le false religioni; il popolo eletto viene spesso punito perché venera dei falsi dèi.

 

Troviamo la stessa visione nel Nuovo Testamento?

San Paolo dichiara con formula lapidaria: «Quello che sacrificano i gentili, lo immolano ai demòni e non a Dio» (1Cor 10,20).

 

Un non cristiano, quindi, non può in alcun modo onorare il vero Dio?

Dio è sicuramente attento alle buone disposizioni soggettive che possono avere gli ebrei, i musulmani o i pagani quando si mettono a pregare. È anche possibile che, mossi dalla grazia, alcuni di essi onorino realmente Dio nel proprio cuore, ma ciò accade nonostante le false idee che dà loro la loro religione. La falsa religione, in quanto tale, non si rivolge al vero Dio ma ad un falso concetto di Dio che si è formata.

 

Cosa si deve pensare della tesi del «cristianesimo anonimo» di Karl Rahner?

Per Karl Rahner, le religioni non cristiane sono una forma di «cristianesimo anonimo». Esse sono delle vie di salvezza «per le quali gli uomini si avvicinano a Dio e al suo Cristo»[30] e quindi, anche se non professano apertamente la fede in Cristo come i cristiani, tuttavia lo cercano.

Tale opinione è assolutamente falsa. Certo, ci sono senz’altro dei non cristiani che, non aderendo a Cristo solo per ignoranza e senza colpa da parte loro, cercano Dio sinceramente. Ma le religioni non cristiane in quanto tali, al contrario, impediscono agli uomini di credere in Cristo e di farsi battezzare. Quando l’islam professa che è una bestemmia dire che Dio genera un figlio, costituisce per i suoi adepti un ostacolo ad aderire alla vera fede.

 

Queste nuove teorie non si appoggiano tuttavia sui Padri della Chiesa, che hanno riconosciuto che le religioni non cristiane contenevano dei «germi del Verbo» (semina verbi)?

È ciò che afferma Giovanni Paolo II, sulla scia del Vaticano II[31]. Ma le citazioni addotte sono surrettizie, perché non è questo che i Padri della Chiesa volevano dire. I testi di san Giustino e di Clemente di Alessandria che vengono invocati in questo senso, in realtà non parlano delle religioni non cristiane, ma dei sistemi filosofici e poetici nati prima del cristianesimo. Il che significa che si possono trovare, ad esempio, dei «germi del Verbo» nella filosofia di Platone o di Aristotele, nelle opere morali di Cicerone o nei versi di Publilio Siro e di Virgilio. E san Giustino precisa che questi «germi» diffusi in tutta l’umanità sono quelli della ragione naturale, che distingue accuratamente dalla grazia soprannaturale.

 

Gli studiosi di patrologia e di letteratura cristiana antica concordano con quest’ultima interpretazione?

Quest’interpretazione è unanimemente riconosciuta dagli studiosi. Citiamo, a titolo di esempio, uno dei maggiori patrologi del Novecento, Berthold Altaner:

«Con la sua teoria del λόγος σπερματικός Giustino getta un ponte tra la filosofia antica e il cristianesimo. In Cristo apparve, in tutta la sua pienezza, il Logos divino, ma ogni uomo possiede nella sua ragione un germe (σπέρμα) del Logos. Questa partecipazione al Logos, e conseguente disposizione a conoscere la Verità, fu in alcuni particolarmente grande; così nei profeti del giudaismo e, fra i greci, in Eraclito e Socrate. Molti elementi della verità sono passati, così egli opina, nei poeti e nei filosofi greci dell’antica letteratura giudaica, poiché Mosè era ritenuto lo scrittore assolutamente più antico. Di conseguenza i filosofi, in quanto vissero e insegnarono conformemente alle regole della ragione, furono dei cristiani, in un certo senso, prima della venuta di Cristo. Tuttavia solo dopo questa venuta i cristiani sono entrati in possesso della verità totale e sicura, priva di ogni errore»[32].

 

Non ci sono, dunque, «cristiani anonimi»?

Al limite, si potrebbero chiamare cristiani anonimi quelli che, nonostante le false dottrine della loro religione, sono interiormente disposti da una grazia speciale di Dio ad accogliere tutto ciò che Dio ha rivelato. Ma è chiaro che non è in questo senso che Rahner   ha utilizzato quest’espressione, perché per lui ad essere anonimamente cristiani non sono singoli individui, ma le religioni non cristiane stesse. Perciò si rivela più opportuno usare l’espressione tradizionale di «battesimo di desiderio implicito» (per la quale cfr. la domanda n. 45 di questo capitolo)[33].

 

Se Cristo è morto per tutti gli uomini, perché è scorretto dire che tutti gli uomini sono salvi?

Cristo è morto per tutti gli uomini nel senso che tutti hanno la possibilità di ottenere la salvezza. Nessuno è escluso. Ma per salvarsi di fatto, l’uomo deve accettare la grazia che Cristo ha meritato per lui e gli offre: se la rifiuta, si preclude l’accesso alla salvezza eterna. Dunque, non è compatibile con la fede cattolica professare la cosiddetta tesi della «salvezza universale».

 

L’errore della salvezza universale ha trovato un certo credito nelle autorità della Chiesa a partire dal Vaticano II?

L’errore della salvezza universale, cioè la tesi secondo cui tutti gli uomini hanno ricevuto da Cristo non soltanto la possibilità di salvarsi, ma anche la salvezza de facto, si è molto diffusa tra i membri della gerarchia ecclesiastica e, pur senza essere mai esplicitamente insegnata nei documenti ufficiali della Santa Sede, trova tuttavia in certe nuove dottrine contenute in tali documenti un supporto dottrinale di rilievo. In particolare, l’insegnamento postconciliare – e specialmente quello di Giovanni Paolo II – è tutto permeato della dottrina del Vaticano II secondo cui «con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in un certo modo ad ogni uomo» (Gaudium et spes, n. 22).

 

Si può citare qualche testo di Giovanni Paolo II in cui si trova questa dottrina?

Giovanni Paolo II ha fatto dell’espressione conciliare di Gaudium et spes il perno stesso della sua prima enciclica (Redemptor hominis), citandola a più riprese, sviluppandola nelle sue conseguenze e chiarendo in che senso vada interpretata. «Si tratta», scrive, «di “ciascun” uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero […], è l’uomo in tutta la pienezza del mistero di cui è divenuto partecipe in Gesù Cristo, mistero del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi di uomini viventi sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito sotto il cuore della madre»[34].

 

Che rapporto c’è tra questo insegnamento e la teoria della salvezza universale?

Senza insegnare esplicitamente la teoria della salvezza universale, la dottrina di Redemptor hominis costituisce la piattaforma teologica di base su cui si fonda questa teoria, e, per ciò stesso, ne favorisce la diffusione. D’altronde, non sorprende in questo senso il fatto che Giovanni Paolo II abbia nominato cardinale Hans Urs von Balthasar, un teologo che sosteneva la tesi che l’inferno sia vuoto, tesi che rappresenta la conseguenza logica ultima della teoria della salvezza universale.

 

Come possiamo sapere che l’inferno non è vuoto?

La Sacra Scrittura parla dell’inferno in numerosissimi passi. Nella sua parabola sul giudizio universale, Gesù lascia chiaramente intendere che ci sono degli uomini che andranno all'inferno: «Allora dirà a quelli di sinistra: “Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno che è preparato per il diavolo e i suoi angeli”» (Mt 25, 41). Inoltre, la ragione stessa ci dice che l’inferno non può essere vuoto, perché ciò, lungi dal costituire un esercizio della misericordia di Dio, attenterebbe alla sua infinita giustizia, perché significherebbe che tutti gli uomini, anche i peggiori criminali, e anche senza essersi mai pentiti (neppure in punto di morte), alla fine godono della stessa sorte degli uomini onesti e dei santi.

 

Che giudizio si può dare sull’incontro interreligioso di Assisi del 1986?

L’incontro delle religioni ad Assisi del 27 ottobre 1986[35] fu uno scandalo senza precedenti, che ha indotto molte anime in errore. Fu anche una colpa contro il primo comandamento di Dio: «Io sono il Signore Dio tuo: non avrai altro Dio all’infuori di me». Mai la Chiesa è stata tanto umiliata come quando il Papa si è messo allo stesso livello dei capi di tutte le religioni e di tutte le sètte. Così ha dato l’impressione che la Chiesa cattolica non sia altro che una comunità religiosa tra le altre, che devono lavorare tutte insieme per stabilire la pace sulla terra, come se potesse esistere una pace il cui fondamento non sia Gesù Cristo. «Non unitevi a un giogo sconveniente con gli infedeli», dice invece la Sacra Scrittura, «[…] che comunanza vi è tra la luce e le tenebre? Che accordo tra Cristo e Belial? Che rapporto tra il fedele e l’infedele? Come mettere insieme il tempio di Dio e gli idoli?» (2Cor 6,14-16).

 

In che modo il Papa si è messo allo stesso livello dei capi di tutte le religioni e di tutte le sètte?

Quando li ha accolti nella basilica di Santa Maria degli Angeli, il Papa era seduto sullo stesso seggio dei capi delle altre religioni. Si evitò tutto quello che avrebbe potuto dare l’impressione che il Papa fosse superiore: dovevano apparire tutti uguali.

 

Il Papa ad Assisi non ha testimoniato la sua fede in Gesù Cristo?

Il Papa ha testimoniato la sua fede personale in Gesù Cristo; ma, nonostante l’ordine di Gesù agli apostoli di andare in missione, Giovanni Paolo II non ha neppure adombrato l’idea che i rappresentanti di quelle religioni abbiano bisogno di convertirsi a Cristo. Al contrario, li ha invitati a pregare i loro falsi dèi: «Andremo da qui ai nostri separati luoghi di preghiera. Ciascuna religione avrà il tempo e l’opportunità di esprimersi nel proprio rito tradizionale. Poi dal luogo delle nostre rispettive preghiere, andremo in silenzio verso la piazza inferiore di San Francesco. Una volta radunati in quella piazza, ciascuna religione avrà di nuovo la possibilità di presentare la propria preghiera, l’una dopo l’altra. Dopo aver così pregato separatamente, mediteremo in silenzio sulla nostra responsabilità di operare per la pace. Esprimeremo poi simbolicamente il nostro impegno per la pace. Alla fine della giornata, io cercherò di riassumere che cosa questa celebrazione che non ha precedenti avrà suggerito al mio cuore, come un credente in Gesù Cristo e come primo servitore della Chiesa cattolica»[36].

 

C’è stata celebrazione di culti non cristiani nella giornata di Assisi?

Non solo dei culti non cristiani furono celebrati pubblicamente, ma vennero anche messi a disposizione delle false religioni dei luoghi di culto cattolici (nella chiesa di San Pietro si è perfino permesso che una statua di Budda fosse posta sul tabernacolo per mettere ai buddisti di venerarla). Quando si pensa che una chiesa cattolica è un luogo santo consacrato unicamente al culto della Santissima Trinità, non si può non pensare all’«abominio della desolazione» annunciato da Gesù Cristo (Mt 24,15).

 

Il Papa non ha precisato che si trattava non di pregare insieme, ma di «stare insieme per pregare»[37]?

Questa formula sembra più una concessione temporanea fatta di fronte alle perplessità e alle opposizioni suscitate dalla riunione interreligiosa che l’espressione del vero pensiero del Papa. Fin dal 1979, infatti, nella sua enciclica inaugurale Redemptor hominis (n. 6), Giovanni Paolo II annunciava la sua intenzione di giungere alla «preghiera comunitaria» con i membri delle altre religioni. Ma, anche ammesso che fosse quello il vero scopo dell’incontro di Assisi, il semplice fatto di promuovere pubblicamente l’esercizio dei falsi culti lasciando intendere che essi siano graditi a Dio è già un enorme scandalo, anche se non vi si partecipa direttamente di persona. Dio ha più volte manifestato che ha in abominio i falsi culti e in particolare l’idolatria.

 

Non si può dire che Giovanni Paolo II ha incoraggiato queste preghiere e questi culti non in quanto sono falsi, ma in quanto sono delle espressioni della religione naturale?

Ad Assisi, non si trattava della preghiera individuale dell’uomo nella sua relazione personale con Dio, ma proprio della preghiera di diverse religioni in quanto tali, mediante il loro rito proprio rivolto alla loro divinità particolare. Questi culti, essendo l’espressione pubblica di credenze false, sono, in sé, delle ingiurie a Dio. D’altra parte la Sacra Scrittura, sia nell’Antico che del Nuovo Testamento, insegna che Dio gradisce solo la preghiera di colui che ha costituito come unico mediatore tra Lui e gli uomini, Gesù Cristo, e che questa preghiera si trova solo nella vera religione.

 

Giovanni Paolo II non ha tentato di giustificare sul piano teologico la sua iniziativa di Assisi?

Giovanni Paolo II ha tentato più volte di giustificare teologicamente la riunione di Assisi, specialmente nel discorso che rivolse ai cardinali il 22 dicembre 1986. In questo discorso la cosa che colpisce di più è che il Papa, per dare un fondamento teologico a quell’incontro interreligioso, fa riferimento per ben 35 volte al Concilio Vaticano II, senza menzionare mai nessun testo del magistero anteriore. Ed afferma a chiare lettere che «la chiave appropriata di lettura per un avvenimento così grande scaturisce dall’insegnamento del Concilio Vaticano II»[38], e che «l’evento di Assisi può così essere considerato come un’illustrazione visibile, una lezione dei fatti, una catechesi a tutti intelligibile, di ciò che presuppone e significa l’impegno ecumenico e l’impegno per il dialogo interreligioso raccomandato e promosso dal Concilio Vaticano II»[39].

 

In quel discorso, con quale argomento esattamente Giovanni Paolo II giustifica sul piano teologico l’incontro interreligioso di Assisi?

Oltre che con i 35 riferimenti al Vaticano II, Giovanni Paolo II giustifica l’incontro interreligioso di Assisi con questa frase di ambiguo significato: «Possiamo ritenere che ogni autentica preghiera è suscitata dallo Spirito Santo, il quale è misteriosamente presente nel cuore di ogni uomo»[40].

 

Perché è ambiguo affermare che ogni preghiera autentica è suscitata dallo Spirito Santo?

La frase è ambigua perché la sua verità o la sua falsità dipendono dal senso che si dà alla parola «autentica». Se per «autentica preghiera» si intende una preghiera che permette di aderire realmente a Dio, la frase è incontestabilmente vera. Ma se con essa si intende «ogni preghiera sincera», essa è erronea (la preghiera del buddista davanti all’idolo di Budda, come quella dello stregone animista o del musulmano possono anche essere soggettivamente sincere, ma non per questo sono suscitate dallo Spirito Santo).

 

E cosa c’è di male nel dire che lo Spirito Santo «è misteriosamente presente nel cuore di ogni uomo»?

Nel linguaggio della teologia cattolica, come del resto nella Sacra Scrittura, l’espressione «presenza dello Spirito Santo» o «abitazione dello Spirito Santo» designa la presenza soprannaturale di Dio tramite la grazia santificante. Quindi è chiaro che, in questo senso, lo Spirito Santo non è presente nel cuore di ogni uomo[41]. Cosa vuol dire, allora, che lo Spirito Santo è misteriosamente presente nel cuore di ogni uomo? L’ambiguità dell’espressione lascia la porta pericolosamente aperta ad un’interpretazione eterodossa.

 

Cosa si può concludere da tutto questo?

Se ne può concludere con tutta evidenza che, alla base l’incontro interreligioso di Assisi del 1986, c’è una teologia incompatibile con la dottrina tradizionale della Chiesa.

 

Se Giovanni Paolo II, ad Assisi, ha manifestato un grande rispetto delle false religioni, queste ultime hanno manifestato un rispetto analogo verso il cattolicesimo?

I musulmani hanno utilizzato senza timore l’incontro di Assisi per professare la loro fede in Allah come l’unica via corretta. Ecco quale fu la loro preghiera per la pace: «Sei tu che adoriamo, sei tu che imploriamo. Guidaci verso la retta via, la via di quelli che tu colmi di benefici, non di quelli che ti irritano né di quelli che si smarriscono». Poi ha fatto seguito la sura II, 136 del Corano: «Noi crediamo a Dio, a ciò che egli ha rivelato, a ciò che ha rivelato ad Abramo, Ismaele, Giacobbe e alle altre tribù; crediamo a ciò è stato donato a Mosè e a Gesù, a ciò che è stato rivelato ai profeti dal Signore. Noi non facciamo differenze tra loro e siamo sottomessi nei confronti di Dio». E la preghiera dei musulmani per la pace è finita con la sura CXII, recitata in arabo da tutti i musulmani: «Inneggia: “Dio è unico! Egli è l’Assoluto! Non genera e non è generato. Nessuno gli è uguale”»[42].

 

Cosa si può notare in queste preghiere islamiche?

Le affermazioni: «Dio non genera e non ha generato», e «noi non facciamo differenze tra loro [i profeti]», sono dirette espressamente contro la fede cristiana che professa che Gesù Cristo non è un profeta come gli altri, ma il vero Figlio di Dio, generato dal Padre prima di tutti i secoli.

 

Come hanno reagito all’incontro di Assisi i non cattolici?

Si può citare su tutti, a titolo di esempio, il significativo commento di un alto dignitario della massoneria, Armando Corona, Gran Maestro della gran loggia italiana dell’Equinozio di Primavera: «Il nostro interconfessionalismo ci è valso la scomunica ricevuta nel 1738 da parte di Clemente XI. Ma la Chiesa era certamente in errore, se è vero che il 27 ottobre 1986 l’attuale pontefice ha riunito ad Assisi degli uomini di tutte le confessioni religiose per pregare insieme per la pace. E cosa altro cercavano i nostri fratelli quando si riunivano nei templi, se non l’amore tra gli uomini, la tolleranza, la solidarietà, la difesa della dignità della persona umana, considerandosi uguali, al di sopra dei credo politici, dei credo religiosi e dei colori della pelle?»[43].

 

Quali sono le conseguenze pratiche dell’ecumenismo?

Le conseguenze dell’ecumenismo sono l’indifferenza religiosa e la rovina delle missioni. Oggi è opinione comunemente diffusa tra i cattolici che ci si possa salvare  grazie a qualsiasi religione. L’apostolato missionario quindi non ha più alcun senso, e succede anche abbastanza spesso che, in nome dell’ecumenismo, si rifiuti di accogliere nella Chiesa dei membri di altre religioni, che, invece, lo domandano. L’attività missionaria diventa semplicemente un sussidio allo sviluppo umano. Ciò è in flagrante opposizione con l’ordine di Gesù: «Andate, dunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto quanto vi ho comandato» (Mt 28,19).

 

Si può citare un esempio di tale attuale rifiuto di convertire i non cattolici?

Se ne potrebbero citare diversi. Uno dei più clamorosi esempi di questa tendenza è la Dichiarazione di Balamand, firmata il 23 giugno 1993, a conclusione di un incontro ufficiale tra cattolici e ortodossi[44].

 

In che contesto ha avuto luogo questo incontro di Balamand?

Per comprendere la genesi di questo incontro occorre tener presente che, dopo lo scisma orientale del 1054, nel corso dei secoli, fino al Concilio Vaticano II, molte parti della Chiesa orientale si sono riunite a Roma (sono i cosiddetti «uniati»). Pur conservando il loro rito orientale e tutte le legittime tradizioni a loro proprie, hanno riconosciuto il primato pontificio, come faceva, prima dello scisma, tutta la Chiesa d’Oriente.

Dopo i cambiamenti politici verificatisi in Unione Sovietica nella seconda metà del Novecento, queste Chiese cattoliche orientali conobbero un grande sviluppo (molti, in effetti, in precedenza erano rimasti separati da Roma solo a causa della pressione esterna e desideravano ritornare in comunione con il Papa). A causa di questo, le autorità ortodosse minacciavano di rompere le relazioni ecumeniche avviate col Vaticano II. L’incontro di Balamand del 1993 si inserisce in tale contesto come un tentativo per salvare queste relazioni ecumeniche.

 

Qual è il contenuto della Dichiarazione di Balamand?

Nel paragrafo 8 della Dichiarazione, il contesto che si è creato con la creazione delle Chiese orientali cattoliche viene definito una «fonte di conflitto e di sofferenza». Si afferma che è per giustificare il suo «proselitismo» – con questo termine vengono spregiativamente qualificati gli sforzi compiuti nel passato per ricondurre gli scismatici all’unità cattolica – che «la Chiesa cattolica ha sviluppato la visione teologica secondo la quale si presentava essa stessa come l’unica depositaria della salvezza» (n. 10). Adesso, al contrario, le Chiese orientali dissidenti sono considerate come sorelle della Chiesa cattolica: «La Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa si riconoscono mutualmente come Chiese sorelle. […] Secondo le parole di Giovanni Paolo II (Slavorum apostoli, n. 27) lo sforzo ecumenico delle Chiese sorelle d’Oriente e d’Occidente, basato sul dialogo e la preghiera, ricerca una comunione perfetta e totale che non sia né assorbimento né fusione, ma incontro nella verità e nell’amore» (n. 14).

 

Cosa prevedono, sul piano pratico, gli accordi di Balamand?

Gli accordi di Balamand prevedono che la Chiesa cattolica rinuncia espressamente a tentare di convertire al cattolicesimo gli ortodossi (n. 12) e rinuncia anche a creare delle strutture cattoliche contro la loro volontà, laddove non ne ha attualmente (n. 29), perché «l’azione pastorale della Chiesa cattolica, tanto latina quanto orientale, non tende più a far passare i fedeli da una Chiesa all’altra; vale a dire che non mira più al proselitismo tra gli ortodossi» (n. 22), «superando l’ecclesiologia sorpassata del ritorno alla Chiesa cattolica». E la Dichiarazione conclude: «Escludendo per il futuro ogni proselitismo e ogni volontà di espansione dei cattolici a spese della Chiesa ortodossa, la Commissione spera di aver soppresso l’ostacolo che ha spinto certe Chiese autocefale a sospendere la loro partecipazione al dialogo teologico» (n. 35).

 

Che giudizio si può dare di questi accordi di Balamand?

Il giudizio non può che essere estremamente severo: queste dichiarazioni costituiscono un palese e clamoroso tradimento dello spirito missionario della Chiesa, dei santi e dei martiri che nel passato hanno dato la loro vita per la conversione dei non cattolici – compresi gli ortodossi – e un’applicazione della nuova dottrina sull’ecumenismo del Concilio Vaticano II.

 

L’ecumenismo e il dialogo interreligioso non sono un’esigenza della carità fraterna?

L’ecumenismo e il dialogo interreligioso, per come sono predicati dal Vaticano II, non sono un’esigenza della carità fraterna, ma al contrario si oppongono alla carità: il vero amore, infatti, esige che si desideri e che si faccia del bene al prossimo. E, in materia religiosa, fare del bene al prossimo significa aiutarlo ad indirizzarsi verso la verità. È quindi un segno di vero amore quello che davano i missionari che lasciavano patria e amici per andare a predicare Gesù Cristo in terre lontane, in mezzo a pericoli e fatiche indicibili; molti vi persero la vita, uccisi dalla malattia o dalla violenza. L’ecumenismo e il dialogo interreligioso, al contrario, lasciano gli uomini nei loro errori. Se questo atteggiamento è più comodo rispetto all’apostolato missionario, non è certo un segno di carità, ma piuttosto di indolenza e di mancanza di coraggio evangelico.

 

Pur opponendosi alle interpretazioni eccessivamente sincretiste della dottrina sull’ecumenismo e sul dialogo interreligioso, non se ne possono conservare almeno le espressioni e sviluppare così una teologia cattolica dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso?

 

Una «teologia cattolica dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso», di fatto, verrebbe a coincidere con ciò che la Chiesa ha sempre insegnato sulla necessità del ritorno all’unità cattolica dei membri delle comunità separate da Roma e la conversione dei non cristiani. È vero che prima del Concilio alcuni teologi parlavano, in questo senso, di un «ecumenismo cattolico» per contrapporlo al «falso ecumenismo»; ma l’origine acattolica di queste espressioni e l’impiego in senso eterodosso che ne è fatto oggi su larga scala ne sconsigliano l’impiego da parte dei cattolici, perché, come insegna san Tommaso, «le nostre espressioni non devono avere niente in comune con quelle degli eretici, in modo che non sembrino favorire il loro errore»[45].

 

Fonte: Dal Catechismo della crisi nella Chiesa, don Mathias Gaudron FSSPX, edizione italiana fra poco disponibile.



[1] Questo Consiglio si definisce come «una comunità di Chiese, che riconoscono Cristo come Dio e Salvatore». Le confessioni religiose che ne fanno parte restano indipendenti. Il Consiglio non ha alcuna autorità su di loro; esse possono accettare o rifiutare come vogliono le sue decisioni. Non è neppure necessario che ognuno dei membri riconosca le altre comunità come Chiese in senso stretto. La Chiesa cattolica non ne ha mai fatto parte.

[2] C. Boyer, Articolo «Oecuménisme chrétien» nel Dictionnaire de théologie catholique. Il termine «ecumenico», nel suo significato primitivo («universale») era usato soprattutto per designare i concili ecumenici della Chiesa, distinti così dai concili particolari (cfr. la domanda n. 19 della presente pubblicazione). Ma, rispetto ad allora, la parola ha assunto, nel contesto delle relazioni tra le diverse religioni, una nuova connotazione.

[3] Pio XI, Enciclica Mortalium animos (6 gennaio 1928).

[4] Ib.

[5] Ib.

[6] Ib.

[7] Pio IX, Lettera Iam vos omnes, 13 settembre 1868 (DS 2998).

[8] Leone XIII, lettera Præclara gratulationis, 20 giugno 1894.

[9] Concilio Vaticano II, Costituzione Lumen gentium (sulla Chiesa), n. 8. La stessa espressione figura nella Dichiarazione sulla libertà religiosa (Dignitatis humanæ, n. 1): «Questa unica vera religione, noi crediamo che sussista nella Chiesa cattolica e apostolica».

[10] La nota 56 della Dichiarazione Dominus Iesus (6 agosto 2000) precisa che la Chiesa di Cristo ha questa realizzazione perfetta (la sua «sussistenza») solo nella Chiesa cattolica. Se però su questo punto interpreta il testo conciliare in modo più tradizionale, d’altro canto riafferma che al di fuori della Chiesa cattolica vi sono «elementi di santificazione e di verità».

[11] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 8; si vedano anche Unitatis redintegratio, n. 3, e Giovanni Paolo II, Enciclica Ut unum sint, n. 13.

[12] L’espressione figura nel testo Unitatis redintegratio, n. 3; si veda anche il n. 14 di Lumen gentium, che parla di «piena incorporazione».

[13] Quelli che non sono incorporati alla Chiesa in re (realmente) attraverso il battesimo, possono esserlo in voto, il che significa che pur non appartenendo, in senso stretto, alla Chiesa, appartengono alla comunione dei santi, attraverso ciò che la teologia chiama il «battesimo di desiderio». Il battesimo di desiderio può essere esplicito (per esempio in un catecumeno che si prepara al battesimo) o anche implicito (per esempio in una persona che si trova fuori dalla Chiesa cattolica senza sua colpa e non ha gli strumenti per discernere che la Chiesa cattolica è l’unica vera religione, ma ha delle disposizioni d’animo tali per cui, se avesse la possibilità di operare tale discernimento, lo farebbe, e si sforza di agire in modo conforme alla legge naturale, lo Spirito Santo può condurla alla fede soprannaturale ed alla contrizione perfetta di suoi peccati per giungere così alla salvezza). Chiaramente, il battesimo di desiderio implicito fa appello a delle condizioni che sono inverificabili in modo certo al foro esterno, e quindi la Chiesa non può mai giudicare se una persona non battezzata abbia realmente dentro di sé queste disposizioni d’animo: solo Dio scruta nei cuori. Di qui la necessità imprescrittibile per la Chiesa di «andare a istruire e battezzare tutti i popoli» (cfr. Mt 28,19).

[14] Quod ergo aqua diluvii non salvavit extra arcam positos, sed occidit, sine dubio præfigurat omnem hereticum, licet habentem baptismatis sacramentum, non aliis, sed ipsis aquis ad inferna mergendum, quibus arca sublevatur ad coelum (San Beda il Venerabile, Commentosu 1P 3,21, in PL 93, col. 60).

[15] Nel dire questo, evidentemente, facciamo riferimento al valore oggettivo dell’atto e non alle disposizioni soggettive dei singoli individui che prendono parte a tali cerimonie, che sono del resto inverificabili in quanto riguardano il foro interno.

[16] Giovanni Paolo II, Enciclica Ut unum sint, n. 11.

[17] H. Schütte, Glaube im ökumenischen Verständnis Ökumenischer Katechismus, Paderborn 1994, p. 33.

[18] Pio XII, Enciclica Mystici corporis (29 giugno 1943).

[19] Cfr. cap. 2, domanda n. 10: «Qual è la conseguenza della negazione di un dogma?».

[20] La Documentation Catholique, n. 1855 (1983), pp. 694-695.

[21] K. Rahner – H. Vorgrimler, Kleines Konzilskompendium. Sämtliche Texte des Zweiten Vatikanums, Herder, Friburgo 1986, p. 220.

[22] Cfr. Acta Synodalia Sacrosanti Concilii Œcumenici Vaticani II, volumen IV, periodus quarta, pars IV (Typis polyglottis Vaticanis, 1977), p. 698 (risposta al secondo modus) e p. 706 (risposta al modus 57).

[23] Il Corano, Sura IX, 30, Mondadori, Milano 1979, p. 274.

[24] Ib., Sura XLVII, 4, p. 700.

[25] Ib., Sure LVI, 22-23, p. 750; LVI, 17-18, p. 750; LXXVI, 19, p. 851.

[26] Mons. K. Koch (vescovo di Basilea), intervistato dal giornale di Zurigo Tagesanzeiger, 29 ottobre 1996, p. 2.

[27] Cfr. la domanda n. 45 del presente capitolo.

[28] Proposizione XVII condannata dal Sillabo (DS 2917).

[29] Card. K. Wojtyla, Segno di contraddizione, Gribaudi, Torino 2005, p. 28. Il libro fu pubblicato nella sua prima edizione poco tempo prima (1977) che diventasse Papa.

[30] K. Rahner, Schriften zur Theologie, t. III, Benzinger, Einsiedeln 1978, p. 350.

[31] Giovanni Paolo II, Enciclica Redemptor hominis, (4 marzo 1979): «Giustamente i Padri della Chiesa vedevano nelle diverse religioni quasi altrettanti riflessi di un'unica verità come “germi del Verbo”». In nota si riferisce a san Giustino e a Clemente Alessandrino, ma soprattutto ai testi del Vaticano II che hanno lanciato questa idea: Ad gentes, n. 11 e Lumen gentium, n. 17.

[32] B. Altaner, Patrologia, Marietti, 7a ed., Torino 1977, pp. 70-71.

[33] Si può ricordare, a questo proposito, ciò che diceva san Gerolamo: Ex verbis inordinate prolatis incurritur hæresis, «se si parla senza precisione si cade nell’eresia» (PL 39, col. 1998). San Tommaso, nel citare questo passaggio, commenta: «Perciò le nostre espressioni non devono avere niente in comune con quelle degli eretici, in modo che non sembrino favorire il loro errore» (Summa theologiæ, III, q. 16, a. 8, corpus).

[34] Giovanni Paolo II, Enciclica Redemptor hominis, n. XIII, 3.

[35] Cfr. cap. IV, domanda n. 21.

[36] Giovanni Paolo II, Allocuzione del 27 ottobre 1986 nella basilica di Santa Maria degli Angeli.

[37] Lo disse nell’Angelus del 28 settembre 1986.

[38] Giovanni Paolo II, Discorso alla curia romana per gli auguri di Natale, 22 dicembre 1986.

[39] Ib.

[40] Ib.

[41] Se così non fosse, non avrebbero alcun senso le parole che la Chiesa fa dire al sacerdote nell’amministrazione del sacramento del battesimo: Exi ab eo, immunde spiritus, et da locum Spiritui Sancto Paraclito (dal rituale del battesimo dei bambini), «esci da lui, spirito immondo, e lascia entrare lo Spirito Santo Paraclito».

[42] Cfr. La Documentation Catholique, n. 1929 (1986), pp. 1076-1077.

[43] A. Corona, in Hiram (rivista del Grande Oriente d’Italia), aprile 1987.

[44] Il testo è stato reso pubblico il 15 luglio 1993 dal Consiglio pontificio per l’unità dei cristiani. Cfr. La Documentation Catholique, n. 2077 (1993), pp. 711-714.

[45] San Tommaso d’Aquino, Summa theologiæ, III, q. 16, a. 8, corpus.

 

 

 

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