di don Franz Schmidberger

Per concludere l'anno della Fede, il Santo Padre, Papa Francesco, ha pubblicato l'Esortazione apostolica Evangelii gaudium sul tema della predicazione del Vangelo nel mondo d'oggi. Questo documento, a causa della sua notevole estensione, 289 punti, richiede al lettore e al teologo un notevole sforzo per essere studiato correttamente. Si sarebbe potuto dire di più con meno parole. Le righe che seguono cercano di darne un primo riassunto, certamente incompleto.

 

 

I.

Questo documento nasce in occasione del Sinodo dei vescovi, svoltosi dal 7 al 28 ottobre dell'anno scorso, dedicato al tema della nuova evangelizzazione: «Ho accettato con piacere l'invito dei Padri sinodali di redigere questa Esortazione» (n.16); allo stesso tempo è stato presentato dal nuovo Pontefice come una sorta di direttorio. A causa del fine duplice e della prolissità del Papa, la struttura di questo documento manca di precisione, di rigore e di chiarezza; per esempio un lungo passaggio è incentrato sulla situazione economica del mondo contemporaneo e poco dopo è esposta l’importanza della predicazione, fino a dare dei dettagli sulla sua preparazione. A più riprese si affronta la questione della decentralizzazione della Chiesa e le questioni ecumeniche e interreligiose sono trattate in lungo e in largo. In più questo documento non è privo di contraddizioni: il Papa precisa che non si tratta di un’enciclica sociale, ma le condizioni economiche sono trattate secondo un modello paragonabile a quello delle encicliche dei Papi precedenti.

Papa Francesco parla della Chiesa come se essa fino ad oggi essa non avesse mai trasmesso il Vangelo o l’avesse fatto in maniera imperfetta. Si lamenta di un atteggiamento noncurante, letargico e chiuso. Questa critica costante ci impressiona sgradevolmente: si ha l’impressione che fino ad oggi si sia fatto poco per la trasmissione della fede e del Vangelo. I suoi commenti si accompagnano sempre ad un riferimento alla sua persona, il pronome personale io appare non meno di 184 volte nel documento e non si contano i mio e i me. Le parole di Dio nell’Apocalisse tornano quasi automaticamente alla mente: «Ecce nova facio omnia» (Apoc. 21,5).

Il documento contiene senza dubbio numerose considerazioni positive, che non possono essere passate sotto silenzio. Diamone qualche saggio:

Al n.7 si dice: «la società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia»; una giusta constatazione!

Al n.22 si legge: «La Parola ha in sé una potenzialità che non possiamo prevedere. Il Vangelo parla di un seme che, una volta seminato, cresce da sé anche quando l’agricoltore dorme (cfr Mc 4,26-29)». L’azione della grazia sorpassa effettivamente ogni calcolo umano.

Al n.25 si ricorda che «Ora non ci serve una “semplice amministrazione”». Se i vescovi e i sacerdoti prendessero a cuore queste parole e girassero le spalle alle commissioni, ai comitati, ai forum, all’estesa burocrazia per agire da veri teologi e pastori!

Il n.37 è un bellissimo paragrafo, con una lunga citazione della Somma Teologica di san Tommaso d’Aquino, e non possiamo esimerci dal riportarlo per intero: «San Tommaso d’Aquino insegnava che anche nel messaggio morale della Chiesa c’è una gerarchia, nelle virtù e negli atti che da esse procedono. (Summa Theologiae, I-II, q. 66, art. 4-6) Qui ciò che conta è anzitutto “la fede che si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5,6). Le opere di amore al prossimo sono la manifestazione esterna più perfetta della grazia interiore dello Spirito: “L’elemento principale della nuova legge è la grazia dello Spirito Santo, che si manifesta nella fede che agisce per mezzo dell’amore” (Summa Theologiae, I-II, q. 108, art. 1). Per questo afferma che, in quanto all’agire esteriore, la misericordia è la più grande di tutte le virtù: “La misericordia è in se stessa la più grande delle virtù, infatti spetta ad essa donare ad altri e, quello che più conta, sollevare le miserie altrui. Ora questo è compito specialmente di chi è superiore, ecco perché si dice che è proprio di Dio usare misericordia, e in questo specialmente si manifesta la sua onnipotenza.” (Summa Theologiae, II-II, q. 30, art. 4.; cfr ibid., q. 30, art. 4, ad 1)».

Al n.42 il Papa insiste sul fatto che la predicazione deve innanzi tutto toccare i cuori: «Per questo occorre ricordare che ogni insegnamento della dottrina deve situarsi nell’atteggiamento evangelizzatore che risvegli l’adesione del cuore con la vicinanza, l’amore e la testimonianza».

Dal n.52 al n.76, si trattano aspetti economici e si mettono in evidenza dei punti interessanti; il capitalismo sfrenato, che è «il risultato di una reazione umana di fronte alla società materialista, consumista e individualista» (n.63), è duramente criticato; «L’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli familiari» (n.67); il Papa conclude al n. 69 che l’imperativo è «evangelizzare le culture per inculturare il Vangelo», e cioè radicare il Vangelo nella società e nella vita della gente. Ma perché qui non parla, come i suoi predecessori prima del concilio Vaticano II, dello Stato cattolico e della società cristiana, che erano presentati come frutti della fede cattolica e anche, di logica conseguenza, come protezione per la stessa fede? Si sarebbe potuto sperare che con tali legittime lamentele sull’economia attuale si facesse riferimento a Quadragesimo anno di Papa Pio XI, per mostrare i principi che conducono a condizioni economiche giuste?

Il n.66 affronta il tema della famiglia, ma omette di ricordare che il matrimonio è l’unione indissolubile di un uomo e di una donna, proprio adesso che l’avrebbero richiesto la moda delle unioni libere e la rivendicazione della comunione per i divorziati risposati. Inoltre nel documento papale ci si sarebbe attesi un’attenzione maggiore alla famiglia cattolica, poiché è attraverso di questa che avviene la prima trasmissione del Vangelo, di generazione in generazione.

Nei n.78 e 79 il Papa descrive lucidamente la vita spirituale degli anni post-conciliari: «Oggi si può riscontrare in molti operatori pastorali, comprese persone consacrate, una preoccupazione esagerata per gli spazi personali di autonomia e di distensione, che porta a vivere i propri compiti come una mera appendice della vita, come se non facessero parte della propria identità. (…) Così, si possono riscontrare in molti operatori di evangelizzazione, sebbene preghino, un’accentuazione dell’individualismo, una crisi d’identità e un calo del fervore. Sono tre mali che si alimentano l’uno con l’altro. La cultura mediatica e qualche ambiente intellettuale a volte trasmettono una marcata sfiducia nei confronti del messaggio della Chiesa, e un certo disincanto. Come conseguenza, molti operatori pastorali, benché preghino, sviluppano una sorta di complesso di inferiorità, che li conduce a relativizzare o ad occultare la loro identità cristiana e le loro convinzioni». I servitori della Chiesa dovrebbero prendere le armi dello Spirito e credere nell’efficacia e nella fecondità di tutti i mezzi che Cristo ha messo nelle mani della Sua Chiesa: la preghiera, la predicazione integrale della fede, l’amministrazione dei sacramenti, la celebrazione del santo Sacrificio della Messa, l’adorazione del Santo Sacramento dell’altare! Invece essi soccombono al «senso di sconfitta, che… (li) trasforma in pessimisti scontenti e disincantati dalla faccia scura. Nessuno può intraprendere una battaglia se in anticipo non confida pienamente nel trionfo. Chi comincia senza fiducia ha perso in anticipo metà della battaglia e sotterra i propri talenti. Anche se con la dolorosa consapevolezza delle proprie fragilità, bisogna andare avanti senza darsi per vinti, e ricordare quello che disse il Signore a san Paolo: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12,9). Il trionfo cristiano è sempre una croce, ma una croce che al tempo stesso è vessillo di vittoria, che si porta con una tenerezza combattiva contro gli assalti del male» (n.85).

Il n.104 riveste una particolare importanza perché riafferma che il sacerdozio, come segno di Cristo Sposo, è riservato agli uomini: «Il sacerdozio riservato agli uomini, come segno di Cristo Sposo che si consegna nell’Eucaristia, è una questione che non si pone in discussione».

Al n.112, è evidenziata la gratuità della grazia e dell’opera della Redenzione: «La salvezza che Dio ci offre è opera della sua misericordia. Non esiste azione umana, per buona che possa essere, che ci faccia meritare un dono così grande. Dio, per pura grazia, ci attrae per unirci a Sé». Al punto seguente si ricorda in modo rigorosamente giusto che la salvezza non è un affare personale: «Nessuno si salva da solo, cioè né come individuo isolato né con le sue proprie forze» (n.113). L’uomo si salva dunque nella Chiesa e attraverso la Chiesa, oppure non si salva.

Al n. 134 è sottolineata l’importanza delle università e scuole cattoliche per la predicazione della fede e del Vangelo. Dispiace tuttavia che solo poche linee siano dedicate a tali opere.

Il n.214 si oppone all’omicidio del bambino che deve ancora nascere, che vive ancora nel seno materno. Sfortunatamente il Papa non fa riferimento all’ingiustizia commessa contro Dio, né all’ordine naturale né ai Comandamenti, ma solo al valore della persona umana.

Nel n.235 sono enumerati i sani principi per lottare contro l’individualismo: «Il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma». Tutto il paragrafo è intitolato: «Il tutto è superiore alla parte». Sviluppare il tema del bene comune avrebbe potuto fare molto bene in questo conteso. Sfortunatamente questo manca.

L’entusiasmo missionario e l’attività apostolica sono superbamente descritti al n.267: «Uniti a Gesù, cerchiamo quello che Lui cerca, amiamo quello che Lui ama. In definitiva, quello che cerchiamo è la gloria del Padre, viviamo e agiamo “a lode dello splendore della sua grazia” (Ef 1,6). Se vogliamo donarci a fondo e con costanza, dobbiamo spingerci oltre ogni altra motivazione. Questo è il movente definitivo, il più profondo, il più grande, la ragione e il senso ultimo di tutto il resto. Si tratta della gloria del Padre, che Gesù ha cercato nel corso di tutta la sua esistenza».

II.

Bonum est integra causa, malum ex quocumque defectu, ci dice il principio classico della morale. Il bene proviene da ciò che è integro, ma se una parte essenziale di una cosa è malvagia, l’insieme è malvagio. Le belle parti del documento papale che ci hanno rallegrato non ci impediscono di constatare la ferma volontà di realizzare il concilio Vaticano II, non solamente secondo la lettera ma anche secondo lo spirito. La trilogia Libertà religiosa – Collegialità – Ecumenismo, che secondo le parole di Mons. Lefebvre corrispondono al motto della Rivoluzione Francese, Libertà – Uguaglianza – Fratellanza, è sviluppata in maniera sistematica.

  1. Prima di tutto ai nn.94 e 95 i fedeli alla Tradizione sono ripresi e accusati di neo-pelagianesimo: «È una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare. (…) né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente. (…) In alcuni si nota una cura ostentata della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, ma senza che li preoccupi il reale inserimento del Vangelo nel Popolo di Dio e nei bisogni concreti della storia».

    Come può il Papa credere a ciò? Il dinamismo dei fedeli cattolici radicati nella fede dimostra il contrario; anche a non voler parlare della nostra Fraternità, non esistono forse i Francescani dell’Immacolata, una giovane e fiorente congregazione missionaria, che oggi si trova gravemente danneggiata, se non distrutta, dall’intervento brutale del Vaticano? Il documento aggiunge: «In tal modo la vita della Chiesa si trasforma in un pezzo da museo o in un possesso di pochi».

    Come abbiamo già evidenziato, le scuole cattoliche, importante strumento di nuova cristianizzazione, beneficiano di una semplice menzione, in una sola frase, quando, a nostro avviso, queste istituzioni sono proprio un modo per trasmettere il Vangelo; nella nostra Fraternità abbiamo la gioia di vedere ogni anno nuove scuole che aprono i battenti.
     
  2. In questo documento è carente il senso della realtà, dando l’illusione che la verità vincerà l’errore di per sè; tale prospettiva si baserebbe sulla parabola del grano e della zizzania: «il nemico può occupare lo spazio del Regno e causare danno con la zizzania, ma è vinto dalla bontà del grano che si manifesta con il tempo» (n.225). Tale interpretazione è un controsenso e una falsificazione del Vangelo.

    La mancanza di realismo si riscontra anche al n.44, dove i sacerdoti sono esortati a non rendere il confessionale «sala di tortura». Anche se nel corso della storia della Chiesa sono effettivamente esistiti qua o là tali eccessi, dove mai accadono ancora al giorno d’oggi? Sarebbe stato meglio aggiungere un capitolo sulla confessione, sulla sua funzione di liberazione dal peccato, dalla colpa, e di riconciliazione con Dio, come punto culminante della nuova evangelizzazione e del rinnovamento interiore delle anime.

    Questa ingenuità, che è una contestazione del peccato originale o almeno delle sue conseguenze sulle anime e sulla società, si manifesta anche al n.84 dove è citato il discorso d’apertura del concilio Vaticano II, il discorso ricco d’illusioni di Papa Giovanni XXIII: «nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai (...). A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo». Disgraziatamente gli anni del post-concilio hanno dato ragione ai “profeti di sventura”.
     
  3. Molto strana l’osservazione espressa al n.129, dove si spiega che «Non si deve pensare che l’annuncio evangelico sia da trasmettere sempre con determinate formule stabilite, o con parole precise che esprimano un contenuto assolutamente invariabile»; il ricordo corre inevitabilmente alla dottrina dell’evoluzione dei dogmi, difesa dai modernisti ed espressamente condannata dal santo Papa Pio X nel giuramento antimodernista.

    Questo atteggiamento evoluzionista si nota anche a riguardo della Chiesa e delle sue strutture: la prima parte del capitolo I è intitolata La trasformazione missionaria della Chiesa e il concilio Vaticano II è presentato come il garante dell’apertura della Chiesa ad una riforma permanente perché «Ci sono strutture ecclesiali che possono arrivare a condizionare un dinamismo evangelizzatore» (n.26).
     
  4. Il n.255 parla della libertà religiosa come di un diritto fondamentale dell’uomo. Il Papa cita qui Benedetto XVI, suo predecessore alla Cattedra di Pietro, con queste parole: «Essa (la libertà religiosa) comprende “la libertà di scegliere la religione che si considera vera e di manifestare pubblicamente la propria fede”». Una tale dichiarazione è in diretta opposizione alla 15esima proposizione del Sillabo di Papa Pio IX, dove è condannata questa affermazione: «È libero ciascun uomo di abbracciare e professare quella religione che, sulla scorta del lume della ragione, avrà reputato essere vera».

    Il seguito del n.255 contraddice la dottrina dei papi dopo la Rivoluzione francese fino a Papa Pio XII incluso. Il Papa parla di un «sano pluralismo»: tale pluralismo è compatibile con la consapevolezza che il Verbo, Seconda Persona del solo vero Dio trinitario, è venuto nel mondo per redimerlo, che Egli è la fonte di tutte le grazie e che solo in Lui si trova la salvezza?

    Inoltre il documento condanna il proselitismo, termine divenuto ambiguo al giorno d’oggi: se lo si intende nel senso di reclutamento di fedeli per la vera religione con mezzi impropri, è certamente da respingere, ma per la maggior parte dei contemporanei sono da considerare proselitismo tutte le attività missionarie e persino qualsiasi argomentazione a favore della vera religione.
     
  5. Il concetto di collegialità sviluppato dal Papa sarà ancora più funesto per l’avvenire della Chiesa; a tale proposito sarebbe bene leggere il n.32 al completo: «Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato». Il Sommo Pontefice cita a tal proposito l’enciclica Ut unum sint di Papa Giovanni Paolo II dove quest’ultimo chiede di essere aiutato a trovare «una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova» e conclude Papa Francesco: «Siamo avanzati poco in questo senso». È dunque deciso a progredire anche in questa direzione? Qual è la sua visione? La chiarisce così: «Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale». A nostro modesto avviso una conferenza episcopale non può mai essere soggetto di un’autentica autorità dottrinale poiché non è una istituzione divina ma un’istituzione completamente umana, di tipo organizzativo. Il papato, in se stesso, è di istituzione divina, così come lo è la carica vescovile e lo sono tutti i vescovi dispersi nel mondo in unione con Pietro, ma non lo è la conferenza episcopale: se si continua a procedere su questo cammino fatale la Chiesa si disgregherà presto in tante chiese nazionali.

    Al n.16 leggiamo: «Non credo neppure che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo». Naturalmente non possiamo aspettarci che la Chiesa prenda posizione su tutte le questioni, ma i Papi del passato hanno sempre dato i principi d’azione per la condotta tanto degli individui quanto della società ed è quello che dovremmo sperare di avere anche oggi dall’insegnamento papale: Cristo ha costituito Pietro proprio perché pasca il Suo gregge.
     
  6. Arriviamo finalmente all’ecumenismo, al dialogo ecumenico e interreligioso. Il n. 246 parla della gerarchia delle verità, termine ambiguo già utilizzato durante il concilio Vaticano II nel decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, al n. 11. In seguito si è tentato di mettere da parte la verità cattolica e di dissimulare tutto ciò che potrebbe costituire pietra d’inciampo per i nostri “fratelli separati”. Nel 1982, la Congregazione della Fede è intervenuta e ha dichiarato che l’espressione gerarchia delle verità non vuol dire che esista una verità meno importante di un’altra ma che esistono delle verità dalle quali procedono altre verità parziali. Non possiamo che essere riconoscenti di questo intervento chiarificatore. La fede cattolica, virtù teologale, reclama l’accettazione dell’intera Rivelazione perché è Dio che la rivela. Inoltre questa chiarificazione dona un esempio della maniera in cui si potrebbero rettificare le ambiguità dei testi del concilio Vaticano II, a eccezione dei punti del tutto erronei. Infine il n.246 invita noi cattolici ad apprendere dagli ortodossi il significato della collegialità episcopale e dell’esperienza sinodale.

    Al n.247 si legge che l’alleanza del popolo ebraico con Dio non è mai stata soppressa, ma questa alleanza non era forse stata istituita da Dio per preparare la Sua Incarnazione salvifica nella persona di Gesù Cristo? Era un’ombra e un modello che doveva lasciare spazio alla realtà, umbram fugat veritas: la nuova ed eterna Alleanza stipulata nel santo Sacrificio di Cristo sul Calvario ha sostituito la vecchia e il velo del tempio si è squarciato da cima a fondo. Secondo la dichiarazione di san Paolo nel XI capitolo dell’epistola ai Romani, una gran parte o addirittura la totalità degli ebrei si convertirà alla fine dei tempi; la conversione avverrà solo attraverso il riconoscimento di Cristo, il solo Salvatore di tutti e di ciascun individuo, e attraverso l’ingresso nella Chiesa che è composta di pagani ed ebrei convertiti, perché non esiste un cammino di salvezza separato, che prescinda Cristo, per gli ebrei. D’altro canto la Chiesa ha da lungo tempo assimilato i valori del giudaismo del Vecchio Testamento, come la preghiera dei salmi o i libri del Vecchio Testamento. Non possiamo più parlare di una «ricca complementarietà» con il giudaismo contemporaneo.

    Da 250 a 253 si tratta il tema dell’Islam e si può leggere che «il dialogo interreligioso è una condizione necessaria per la pace nel mondo». Il n.252, sulla linea del documento del concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 16, pretende che gli islamici «professando di avere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico». Ma gli islamici rigettano espressamente il mistero della Trinità e accusano chi invece vi crede di politeismo. Il Papa dice inoltre, utilizzando le parole di Nostra aetate (n.3), che essi manifestano una profonda venerazione per Gesù Cristo e Maria; ma essi non venerano Gesù Cristo come Figlio di Dio, uguale a Lui nell’essenza: sembra che sia un dettaglio senza importanza (nel documento romano. NdT)!

    Al punto seguente, il Papa arriva a conclusioni pratiche: «Noi cristiani dovremmo accogliere con affetto e rispetto gli immigrati dell’Islam che arrivano nei nostri Paesi, così come speriamo e preghiamo di essere accolti e rispettati nei Paesi di tradizione islamica» e termina con un’affermazione falsa e scandalosa: «Di fronte ad episodi di fondamentalismo violento che ci preoccupano, l’affetto verso gli autentici credenti dell’Islam deve portarci ad evitare odiose generalizzazioni, perché il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad ogni violenza». Il Santo Padre ha mai letto il Corano?

    Al n.254 si affronta il soggetto dei non cristiani in generale e il fatto che i loro segni e riti «possono essere canali che lo stesso Spirito suscita per liberare i non cristiani dall’immanentismo ateo o da esperienze religiose meramente individuali», il che sembra dire che lo Spirito Santo operi in tutte le religioni non cristiane e che esse siano tutte vie di salvezza. La fede dell’Islam in un solo Dio è certamente – se parliamo in maniera astratta – superiore al politeismo dei pagani, però è molto più facile, sia psicologicamente che pedagogicamente, convertire un pagano che un islamico, perché quest’ultimo è inserito in un sistema socio-religioso e per uscirne mette in pericolo la sua stessa vita. Ma le religioni non cristiane non sono dei percorsi neutri per venerare Dio, poiché sono spesso mescolate a elementi demoniaci che impediscono all’uomo di giungere alla grazia di Cristo, di farsi battezzare e quindi di salvare la sua anima.

    Negli ultimi cinquant’anni, nulla ha danneggiato la salvaguardia e la trasmissione della Fede più del dilagante ecumenismo che altro non è che «la dittatura del relativismo» religioso; (Card. Ratzinger) questo male ha fatto scomparire la definizione della Chiesa come Corpo mistico di Cristo, sola Sposa dell’Agnello sacrificato, unica via di salvezza e ha trasformato la Chiesa missionaria in una comunità «dialogante» ecumenica tra le altre comunità religiose.

    Chiamare la Chiesa alla gioia del Vangelo e volerla trasformare in una Chiesa missionaria nel quadro di questo ecumenismo ha un sapore tragicomico: come può pensare e agire in maniera missionaria se essa non crede alla propria identità e missione?

Conclusione

Sebbene l’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium possa contenere degli elementi giusti, come semi dispersi, ella è nell’insieme uno sviluppo conseguente del concilio Vaticano II, secondo le sue conclusioni più inaccettabili. Non vediamo «vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni» (n° 1), quanto piuttosto un altro passo funesto per il declino della Chiesa, per la decomposizione della sua dottrina, per la dissoluzione delle sue strutture e anche per l’estinzione del suo spirito missionario, nonostante sia ripetutamente chiamato in causa; Evangelii gaudium diviene dolor fidelium, una pena e un dolore per i fedeli.

I cattolici legati alla Tradizione della Chiesa devono seguire il motto del pontificato di San Pio X: Instaurare omnia in Christo, il solo cammino, la sola via «per il cammino della Chiesa nei prossimi anni» (n.1) che vediamo possibile. Con questo ideale recitiamo il Rosario quotidiano cercando rifugio presso Colei che ha vinto nel mondo tutte le eresie.

Don Franz Schmidberger
Direttore del seminario Herz Jesu di Zaitzkofen

Fonte: DICI

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